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The War on Drugs
I Don't Live Here Anymore
[Atlantic/ Warner 2021]

Sulla rete: thewarondrugs.net

File Under: americana grandeur

di Luca Volpe (21/11/2021)

Crisi. Per settimane le parole apparivano beffarde per rendere i concetti che avevo in mente: scrivere pareva poca cosa. Motivo? Un disco, I Don’t Live Here Anymore dei War on Drugs. Ma andava fatto. Dico: la classicità è il modo per sanare ciò che è malato (il rock e l’idea di controcultura), malattia alimentata dalla rassegnazione attuale. Affermo: il digitale va usato con misura nella produzione di contenuti d’ogni tipo o uccide la complementarità di magia e verosimiglianza. Proseguo: dieci brani nati in tre settimane nel 2018, tre anni per registrarli e produrli. Alla produzione un canadese, Shawn Everett, nazionalità eletta nel plasmare un suono scintillante e al master Greg Calbi e Steve Fallone, curricula smisurati. E Adam Granduciel dice due cose: una, che per fare i dischi belli bisogna ripartire dalle produzioni del passato "ottantiano" a fronte delle attuali, a volte melassa noiosa, meccanicista, antiumana, anticreativa; l’altra, alla fine dell’articolo.

Le buone produzioni rafforzano le idee dell’artista, ne tutelano l’autenticità: il suono degli anni Ottanta terrorizza molte persone. Si barricano dietro l’idea che certi stili siano più genuini grazie ad un suono ruvido. Falso: Twin Infinitives dei Royal Trux, ad esempio, ha impiegato un anno fra incisioni e produzione; per i capolavori, ci vuol tempo. Ma la musica, chiederete… il disco è uno stato dell’arte provvisorio. La crescita dei musicisti e la loro coesione si riverbera su canzoni meno lunghe che in passato ma più corpose del medio brano pop. Psichedelia e richiami ai Can, un leggero retrogusto indie nella voce di Granduciel, attireranno i fedeli della prima ora, fermo restando l’intento guerresco nei confronti del panorama attuale: le canzoni scorrono fluide, immerse in un clima da battaglia che tempesta serenamente l’ascolto. I War on Drugs non sono più un’estensione del loro vate: la firma di metà dei brani è condivisa fra vari membri.

Un disco profondo, viscerale, romantico, ottocentesco: teso verso il sublime nel cogliere la totalità invece di sezionare il cosmo. Il lavoro sull’arrangiamento è strepitoso, soprattutto nelle progressioni, i suoni stellari. Il gruppo rompe ogni schema iniziando da una ballata, Living Proof, in cui entra a metà brano per sostenerlo nella marcia d’avvicinamento all’obbiettivo, chiaro su Harmonia’s Dream: un pizzico di Journey nell’heartland country, per chiarire a tutti dove gira l’autenticità (capaci di fare una versione definitiva in due riprese) urlando il travaglio interiore e la speranza. Change emette quel suono scintillante inseguito negli anni, fra Aldo Nova e i Dire Straits. I Don’t Wanna Wait gira dalle parti degli Ultravox, brano pensoso che si trasforma come araba fenice in una festa della potenza. Victim ha qualcosa del pop funk nel pulsare del basso, ma gli accordi acquamarini delle tastiere lo trasportano di peso verso l’heartland. Wasted dà lezioni agli A-Ha scavalcandoli sulla melodia, senz’essere mielosa come loro.

L’apice è il singolo scandaloso, il brano omonimo accusato negli ambienti indie di “bryanadamsismo”: aiutati dalle grandiose Lucius, i War on Drugs scodellano un inno del nuovo millennio, catabasi pregna di catarsi, composizione grandiosa e imperfetta, perciò umana, un brano che supera i migliori Simple Minds sul loro terreno, quello del “big sound”, grande vibrazione, grandi anime. Oggi si spaccia per ottantiana la bolgia filocibernetica che scimmiotta malamente una decade; qui lo si fa, lo si vive, lo si è. La seconda verità è che questo non è che un episodio: Granduciel è già altrove, “I don’t live here anymore”.


    



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