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Tyler Childers
Can I Take My Hounds to Heaven?
[Hickman Holler/ RCA 2022]

Sulla rete: tylerchildersmusic.com

File Under: country gospel


di Fabio Cerbone (17/10/2022)

Che Tyler Childers, brillante talento di quella fucina country che si è rivelata di recente la terra del Kentucky, avesse il coraggio e anche un po’ l’incoscienza di sparigliare le carte del genere ce n’eravamo accorti già con il precedente Long Violent History, disco di antichi fiddle tunes, tradizionali per violino che riportavano in auge l’eredità più nascosta del folk appalachiano in cui lo stesso Childers è cresciuto. Difficile tuttavia immaginarsi un’operazione come Can I Take My Hounds to Heaven?, triplo album, ventiquattro tracce suddivise in tre distinti capitoli, intitolati rispettivamente Halleluah, Jubilee e Joyful Noise, che ripropongono gli stessi otto brani in differenti arrangiamenti e soluzioni sonore.

In attesa di capire se si tratta di una presa in giro (il disco, soprattutto nel formato in vinile, non è senz’altro venduto a buon mercato), di un azzardo artistico o più banalmente di un colpo di testa del musicista, il quale non è stato riportato a buoni consigli dalla casa discografica (il marchio RCA però si limita a distribuire, l’etichetta resta la personale Hickman Holler), ciò che ci rimane da giudicare è il senso più o meno compiuto del contenuto musicale. E anche qui molti dubbi restano, perché dei suddetti otto brani l’iniziale The Old Country Church è una cover di un brano di Hank Williams, Purgatory una rielaborazione della title track dal secondo album di Childers, e Two Coats e Jubilee nella sostanza due strumentali rielaborati in tutte e tre le versioni proposte. Messa in conto anche la durata di Can I Take My Hounds to Heaven?, poco più di mezz’ora di musica, perché dunque non limitarsi a un solo disco e semmai a qualche generosa bonus track?

Evidentemente Tyler Childers e band al seguito, i fedeli The Food Stamps, sono stati guidati da ben altra convinzione mettendo mano a questo materiale di chiara ispirazione country gospel, con quel sostrato spirituale che lo infervora e una naturale propensione al gesto soul e funk. Soprattutto nel formato diretto, live in studio, del primo capitolo Halleluah l’impressione è dannatemente buona, almeno quando si arriva al dunque: The Food Stamps assecondano l’intensità del “reverendo” Childers e la citata The Old Country Church, l’honky tonk sbrigliato di The Way of the Triune God e l’innodica Angel Band sono fiori all’occhiello di un’american music dal respiro antico e rinnovato al tempo stesso, mentre il finale passionale di Heart You've Been Tendin' alza il tasso rock dell’interpretazione di Tyler Childers.

Il problema è che Can I Take My Hounds to Heaven? non finisce affatto qui e così arriva la "replica" di Jubilee: la differenza? Un po’ di archi qui, una spolverata di fiati là, in generale una punta di southern soul in più, ma guarda un po’ si finisce per preferire la dimensione asciutta degli otto episodi di Halleluah, fatta forse eccezione per una irresistibile The Way of the Triune God ringalluzzita da un soffio bandistico in stile New Orleans, mentre Heart You've Been Tendin', comprensiva di uno sfarfallio di violini, finisce in zuccherosi territori Motown e Jubilee in versione cantata (voce femminile lagnosa oltre l’accettabile) si affloscia completamente. Dei remix e sample in chiave elettronica, con un lavorio di taglia e cuci, presentati nel terzo atto di Joyful Noise avremmo invece fatto a meno: forse perché non siamo in grado di capirli, molto più probabilmente perché si rivelano per quello che sono, un gioco stucchevole e fine a se stesso che non sembra “svelare” nulla di inedito su queste canzoni, rendendo l'ascolto complessivo estenuante.

E dunque torniamo sempre al punto di partenza: i dischi siamo abituati a giudicarli nel loro insieme e non a pezzi, per cui se Tyler Childers ha deciso di spiattellarci un triplo album in un colpo solo, noi così lo trattiamo, rispendendolo al mittente come una (bella) occasione sprecata e con il suggerimento, per la prossima volta, di concentrarsi meglio sul contenuto, lasciando perdere il superfluo.


    



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