C’è stato un tempo in cui
- roba da non crederci in tempi come questi, dove il sonwgriting di qualità
non è esattamente al centro delle attenzioni - il nome di Freedy Johnston
era portato in palmo di mano dalla critica, tra le possibili next big
thing della canzone rock d’autore americana. Era la prima metà degli
anni Novanta, le grandi case discografiche concedevano ancora una possibilità
a qualche outsider e finivano per investire soldi e tempo in dischi “minori”
e incantevoli. Accadde così che Can You Fly divenne uno dei titoli
più chiacchierati del 1992 e per il successivo This Perfect World si
scomodò persino un marchio come l’Elektra e un produttore come Butch Vig
(vi dice niente Nevermind dei Nirvana?).
I quindici minuti di notorietà passarono in fretta (ma almeno Never
Home e Right Between the Promises restano altri due album da
ricordare) e Johnston piano piano uscì dalla vista dei radar, dedicandosi
sempre alle sue canzoni, ma con più parsimonia. Tanto è vero che negli
ultimi quindici anni le notizie sono state scarse e i dischi altrettanto:
ritrovarlo in forma e concentrato sul pezzo, come si dice in questi casi,
con il qui presente Back on the Road to You è dunque ancora
più appagante, una voce amica che non ha perso lo smalto dei tempi migliori,
sfruttando quelle armi naturali che sono la melodia facile, un folk rock
svelto e dal gancio pop, una scrittura intelligente e ironica che guarda
alle piccole scosse del cuore, fra sentimenti e quotidianità.
Inciso a Los Angeles sotto la guida del produttore e discografico (suo
il marchio Forty Below records che pubblica il disco) Eric Corne, Back
on the Road to You flirta con un po’ di nostalgia, sfrutta il mestiere,
ma scova anche canzoni immediate che collocano una volta di più Johnston
in quella linea immaginaria che unisce Elvis Costello a Tom Petty, sobbalzando
con leggerezza nell’apertura affidata alla title track e subito agganciando
il traino del singolo killer con There Goes a
Brooklyn Girl, un brano che potrebbe tranquillamente appartenere
alla scaletta del citato This Perfect World (cercatelo nell’usato
sicuro, è un affare). Se la sensazione è di averle già sentite queste
canzoni (The I Really Miss Ya Blues), dall’altra il merito dell’album
è proprio la sua familiarità e quella disinvoltura nell’esprimere la voce
più autentica di Freedy Johnston, uno che sa scrivere senza colpo ferire
una canzone su un amore tecnologico (la deliziosa Madeline’s
Eyes) e gettarsi poi nelle braccia di una agrodolce ballata
dal’intonazione country (That’s Life, Darlin’).
In quest’ultima a fare da spalla c’è la voce dell’amica Aimee Mann
e se lei come le colleghe Susanna Hoffs e Susan Cowsill si sono messe
subito in fila per partecipare alle registrazioni, qualcosa vorrà pur
dire riguardo la stima accumulata negli anni da Johnston. Non si spiegherebbe
altrimenti anche il suono cristallino che una band costruita sulle qualità
di gente, tra gli altri, come Doug Pettibone (Lucinda Williams) o Dusty
Wakeman (Jim Lauderdale) può offrire allo svelto power pop di Tryin’
to Move On e The Power of Love, le più elettriche del
lotto in contrasto con la sofisticata eleganza melodica di una Somewhere
Love, che piacerebbe a James Taylor.
Uno dei migliori autori della sua generazione, anche se non se n’è accorto
(quasi) nessuno. Ma la storia la conosciamo già.