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folk, Americana di
Fabio Cerbone (03/01/2012)
Sapori
terrigni, di un'America fuori dalla vista, si uniscono ad un'anima romantica da
late hour, in questo esordio del duo Big Harp. Sono l'ultima, piccola sorpresa
che il collettivo discografico della Saddle Creek di Conor Oberst (Bright Eyes)
ci regala sul calare del 2011. Il disco in questione lo recuperiamo infatti dai
rimasugli dello scorso autunno, pagando il pegno per le tante, troppe uscite perse
per strada in un mercato impazzito, consapevoli tuttavia che è valsa davvero la
pena di tornare indietro sui sentieri tracciati da White Hat. Sentieri,
proprio così, perché c'è il sapore aspro della polvere che si solleva fra queste
ballate disadorne e vagamente western, raffigurate esplicitamente in una delle
più belle copertine della stagione: un cavaliere solitario trascina la compagna
dentro la wilderness americana, idealmente viaggiando nella natura segreta, meno
prosaicamente spostandosi dal gelido, piatto Nebraska (terra di origine, in un
paese di duemila anime, di Chris Senseney) alla soffocante, infinita metropoli
di Los Angeles (luogo di provenienza della moglie Stefanie Drootin).
Ancora
una volta insomma dritti verso l'Eden e la corsa all'oro, nonostante la visione
di Chris Senseney e Stefanie Drootin-Senseney possieda più il sapore di un romanzo
di Steinbeck, fra Grande Depressione e una triste storia d'amore che si apre sulle
fattezze malinconiche di Nadine. Una donna
si lascia il passato alle spalle per ritrovare infine la via di casa e degli affetti
nella conclusione pianistica di Oh Nadine,
sorta di secondo atto posto in chiusura dell'album. Nel mezzo un debutto e la
sua manciata di canzoni (una quarantina di minuti scarsi e l'obiettivo dell'essenzialità
più aciutta possibile) che segnalano Big Harp come una possibile, promettente
nuova variante dell'Americana in umile chiave folkie. Non siamo espressamente
avvolti nella bambagia della tradizione più ligia e neppure nell'estetica "indie"
a tutti i costi (seppure la Drootin vanti esperienze importanti con Azure Ray
e The Good Life): è qualcosa di brusco e sensibile al tempo stesso, come il caracollare
country di Goodbye Crazy City e la soavità
acustica Everybody Pays da una parte e il
country blues fangoso di Steady Hand Behind the Wheel
e All Bets Are Off dall'altra, lì dove la
voce grave ed espressiva di Chris Senseney pare persino ricordare il buon Greg
Brown.
D'altronde il Nebraska (Omaha è la città di adozione del duo e
dove ha sede la Saddle Creek) non è lontano dall'Iowa di quest'ultimo e nel profondo
del Midwest sensibilità e suggestioni di intrecciano in un solo accento. Strano
dunque che White Hat sia stato registrato a Los Angeles, luogo-non
luogo che appare il più distante possibile da tale rustica cadenza dei Big Harp:
Pierre de Reeder (Rilo Kiley) produce togliendo ogni fronzolo, Chris Phillips
siede dietro i tamburi e la coppia Senseney-Drootin modella tutto il resto, guardando
più alla radice folk del marito e al suo piccolo mondo di provincia (la dolce
catilena di Some Old World I Used To Know,
il picking leggiadro di White Hat). Eppure,
di tanto in tanto, White Hat scompagina le definizioni, pur mantenendo il suo
carattere così austero: capita allora che Here's Hoping
rifletta la loro personale visione della soul music, ridotta all'osso ne siamo
certi, ma con un vocalità che Senseney sa rendere interessante nella sua dimensione
assolutamente dimessa; Let Me Lend My Shoulder
una ballata quasi celestiale; Out in the Field,
per contrapasso, un blues sincopato e zoppicante che infila una chitarra gracchiante
e un po' "waitsiana".
È proprio il caso di seguirli "sulla strada" questi
Big Harp e vedere quanta sabbia e polvere sapreanno alzare nei tempi futuri.