Ryan Bingham
Tomorrowland
[
Axster Bingham Records
2012]

www.binghammusic.com


File Under: new Texas-Prog

di Nicola Gervasini (29/10/2012)

Sono fermo ad un incrocio, e ci sono molte strade da prendere, ma io me ne sto lì in silenzio per paura di sbagliare. Una strada porta al paradiso, una al dolore, una alla libertà. Ma sembrano tutte uguali! Le parole sono quelle liberamente tradotte da Crossroads del compianto Calvin Russell. Nulla che c'entri con Ryan Bingham in verità, se non fosse che ascoltando Tomorrowland sembra quasi di vederselo il povero Ryan a quell'incrocio. Laddove le sue tre strade portano una alla rassicurante reiterazione dei riuscitissimi clichè dei suoi primi due album, una alla conferma della quieta dimensione acustica di Junky Star (e del brano che gli ha regalato Oscar e successo), la terza è invece la strada dell'ignota sperimentazione. Non era certo da Ryan Bingham che ci aspettavamo chissà quali voli pindarici nelle nuove frontiere della roots-music, e, anzi, la paura di sentirne solo la stanca ripetizione di sé stesso era alta.

Invece Tomorrowland si guadagna il primo punto a favore proprio sotto questo aspetto, perché se voleva sorprendere, ci è riuscito in pieno. Dove crolla però è nell'insieme finale, perché Bingham alla fine, scegliendo tutte le strade possibili, non ha in verità operato nessuna scelta, se non tirare colpi a cerchi e botti senza troppa idea di un perché che non sia la sbandierata libertà della sua prima auto-produzione al di fuori dell'abbandonata Lost Highway che lo aveva lanciato. E così la terza via si risolve in sorprendenti lunghi tour de force come Western Shore, Never Far Behind o l'encomiabile Rising Of The Ghetto, brani maestosi, persino pretenziosi nel loro essere volutamente barocchi (dal pastiche sonoro - non certo finemente prodotto - affiorano anche archi, mellotron e tastiere), eppure affascinanti proprio perché fino a ieri impensabili nel suo songbook. Per non parlare della drammatica tensione tenuta nei quasi sette minuti di No Help From God, splendida ballata che però svela un Bingham più prossimo ad un predicatore da strada che al profeta di sventure politiche per la sua nazione prossima alle elezioni che vorrebbe evidentemente incarnare.

Ma accanto a queste evidenti prove di coraggio albergano veri e propri momenti in cui Ryan se la fa letteralmente sotto, rifugiandosi in testi di analisi sociale che pestano lo stesso terreno dell'ingenua enfasi dell'ultimo Springsteen, e in schemi risaputissimi come quelli della zoppicante I Heard'em Say o The Road I'm On. Completano il quadro alcuni brani acustici che non lasciano il segno (Too Deep To Fill), e quella scellerata incapacità di tagliare l'inutile, inserendo troppi riempitivi in una scaletta che poteva anche terminare dopo nove tracce e non trascinarsi a tredici con non qualche fatica. Le zampate ci sono (la devastante Heart Of Rhythm , l'essenziale Keep It Together, la sciolta Neverending Show), ma è proprio la somma finale che sa di gran confusione mentale. Occasione persa, forse a causa di quella paura di cui parlava Russell. A volte prendere una strada senza pensarci troppo è la scelta migliore, costi quel che costi.


    


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