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Bourbon Street lullaby di
Gianfranco Callieri (24/05/2013)
Di fronte a un disco come Dreaming From The Heart of New York si
potrebbe anche dare atto a Clarence Bucaro, al sesto lavoro dai tempi dell'ancora
discreto Sweet Corn (2002), di aver trovato la misura perfetta della propria musica.
Certo, una misura rintracciata seguendo un percorso euristico, facendo ricorso
all'intuizione piuttosto che al metodo, confrontandosi con utensili espressivi
tutti molto simili e nondimeno, ogni volta, rimodellati secondo necessità. Nonostante
i frequenti cambi di residenza, dal nativo Ohio alla Louisiana, poi a Los Angeles
e infine a Brooklyn, Bucaro non si è mai allontanato troppo dai suoni e dagli
umori di New Orleans; semmai, nel corso degli anni, la sua scrittura ha perso
l'iniziale infarinatura country-blues per dirigersi verso una canzone d'autore
morbida e vellutata, piena di rimandi alle ballate del primo Jackson Browne e
al soul urbano degli anni '70.
I brani del nostro, sempre più dolci, carezzevoli
e rilassati, e ancora una volta cuciti assieme dalla supervisione del mentore
Anders Osborne (produttore di quasi tutti gli album di Bucaro), assomigliano
oggi ai timidi raggi di sole di una domenica mattina, al tepore ancora insicuro
di un'alba appena riscaldata e ancora sonnacchiosa, al tremolare esitante di una
candela accesa nel buio per celebrare la memoria di Terry Callier. Tutte cose
belle e giuste, ci mancherebbe, ma anche parecchio sfuggenti. Chi, a proposito
del songwriting di Bucaro, continua a evocare Van Morrison, semplicemente non
sa di cosa sta parlando. Rispetto al cowboy di Belfast mancano, neanche a dirlo,
la rabbia, la visione, la spiritualità sconfinante nell'ossessione. Qui tutto
sembra essere inquadrato in scala ridotta: sono ridotte le ambizioni e gli spunti,
è ridotta l'ampiezza dei riferimenti, ridotte (o monotematiche, fa lo stesso)
le atmosfere. La regia di Osborne rappresenta, da sola, un avallo di qualità,
e Bucaro possiede senz'altro il physique du rôle e la voce adatta per recitare
la parte del James Taylor newyorchese. Solo che entrambi, almeno in questa occasione,
paiono aver confuso il rigore con la piattezza, l'uniformità di registro con la
noia.
Ne risulta un compito tanto perfettino quanto poco ispirato, tanto
gradevole (come sottofondo) quanto trascurabile. Il folk-soul in punta di dita
di Don't Know Much About Love, la sensualità semiacustica di Let
Me Be Your Baby Tonight o gli armoniosi ornamenti smooth-soul di una
a dir poco deliziosa Curtis Mayfield sono, a modo loro, episodi ineccepibili,
ma stabiliscono una tendenza all'esitazione, all'ondeggiamento tra minimalismo
dei toni e vaghezza del tocco, purtroppo imperversante ovunque e mai contraddetta
da un guizzo d'inventiva, uno scarto nel linguaggio, un ribaltamento di prospettiva.
Nulla di male, per carità, o meglio, non essendoci, in Dreaming From The Heart
Of New York, nulla di particolarmente rilevante, nemmeno vi si può rinvenire alcunché
di troppo nocivo. Come detto, questo, sotto il profilo della coerenza di stile,
è un lavoro perfetto (fin troppo). Quando però si arriva alla sequenza, micidiale
per tedio, che va da New Sky alla conclusiva
Winter Blue (cinque canzoni di fila senza
il barlume di un'idea), ci si domanda se Bucaro, data la disarmante latitanza
di qualsiasi slancio compositivo, non abbia per caso esaurito ogni suggestione
nell'inventarsi titoli come Ocean Size Heart o Summer Rain. O se,
suspicione ben più offensiva, nello scrivere Light As
A Feather, "leggero come una piuma", non gli sia uscita una definizione
involontaria, ma attendibilissima, del peso specifico dell'intero Dreaming From
The Heart Of New York.