Brandi Carlile
Bear Creek
[
Columbia/ Sony 2012
]

www.brandicarlile.com


File Under: Americana, pop rock

di Fabio Cerbone (11/06/2012)

Da qualche parte tra il paradiso e l'inferno o più prosaicamente a metà strada fra le conquiste artistiche e il successo di pubblico e critica, Brandi Carlile raggiunge il guado dei trent'anni con tutte le incertezze che già aveva evidenziato il predecessore Give Up the Ghost. Ovvero sia un talento che irruppe sulla scena americana per darne una visione solenne ed energica al tempo stesso, con ballate che non si vergognavano di gonfiarsi del loro retaggio country gospel e di addomesticarlo con le dolci finezze del pop più adulto. Su questa linea però Bear Creek resta ancora indeciso se fare il salto definitivo nel mainstream o mantenere un saldo legame con le radici: nell'indecisione risulta un disco a doppia faccia, entusiasmante a tratti e irrimediabilmente banale in altri, lasciando un grosso punto interrogativo sulla carriera artistica di Brandi Carlile (il successo pare invece che non sia minimamente in discussione).

Senza le direttive di T Bone Burnett, ma con una più malleabile direzione produttiva di Trina Shoemaker, la Carlile si affida ancora alla rotta musicale dei fratelli Phil e Tim Hanseroth, dagli esordi sorta di alter ego della cantautrice di Ravensdale e cuore pulsante della sua band: maneggiando strumenti a corda assortiti e delineando la rotta degli arrangiamenti, trovano spesso una sintesi esemplare, altre volte invece si perdono in forzature irritanti. Nel primo caso ammantano l'ideale facciata A di Bear Creek (nome del luogo in cui il disco è stato registrato, un vecchio fienile nello stato di Washington) di un rassicurante trait d'union con il passato: l'incalzante gospel rock di Raise Hell ad esempio, palestra per la stentorea voce di Brandi, o ancora i sospiri rootsy di Hard Way Home, l'artigianato acustico di Save Part of Yourself, fino alla rurale intonazione country di Keep Your Heart Young. Sin qui pare persino di assistere al disco più fagocitato dal linguaggio Americana della sua produzione, ma a cominciare dalla trame zuccherine di 100 qualche segnale di cambiamento è già in atto.

Non è mai mancato, come ricordato, un nobile retagio pop nella scrittura di Brandi Carlile: con i giusti equilibri l'esordio omonimo del 2005 e il successivo rivelatore The Story ne avevano fatto tesoro, ma oggi tutto appare un po' più scontato. That Wasn't Me non è una ballata che lascia indifferenti, eppure tolto il pathos dell'interpretazione resta una melodia un po' scontata (e non ricorda forse Let It Be dei Beatles?), mentre I'll Still Be There vive sulle conquiste passate e What Did I Ever Come Here For e Heart's Content deragliano fra stucchevoli tappeti di archi e affettata eleganza. Che buona parte di questo garbo musicale dipenda dalla maturità dell'artista, o forse soltanto da un suo legittimo desiderio di ambizione, è una delle possibili spiegazioni, ma resta il fatto che i saliscendi di Bear Creek sono troppo frequenti per promuoverlo a pieni voti: nel finale soprattutto, quando spuntano l'enfasi pop rock di una Rise Again davvero buttata via (e quel riff in coda che cita la grandeur U2 non si può proprio sentire) e una inconsistente, impalpabile Just Kids che si dilegua senza lasciare traccia. Luci e ombre insomma, in attesa di un verdetto più certo.


   


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