The Deep Dark Woods
The Place I Left Behind
[Six Shooter/ Sugar Hill
 
2012]

www.thedeepdarkwoods.com
www.sugarhillrecords.com


File Under: dark country-rock, folk

di Gianuario Rivelli (04/06/2012)

Una delle uscite più interessanti degli ultimi mesi nel panorama Americana/ folk, vi riproponiamo la recensione del recente The Place I Left Behind dei canadesi Deep Dark Woods, pubblicato a livello indipendente lo scorso autunno, di difficile reperibilità e oggi degnamente distribuito a livello internazionale dalla Sugar Hill (Rootshighway.it)

Disponetevi a farvi illuminare dall’oscurità, a farvi riscaldare da brume e ombre. Pensate di ritrovare la strada grazie a sentieri oscuri e non battuti. Preparatevi a farvi cullare dagli spettri. Saranno solo alcune delle sensazioni che proverete mettendo nel lettore The Place I Left Behind, quarto disco di The Deep Dark Woods (raramente si è visto un nome così programmatico) che non solo mantiene tutte le promesse accese dal pluripremiato predecessore Winter hours, ma da un’ulteriore impennata che pone di fatto la band canadese nell’olimpo di quel fecondo filone che, solo per rimanere alla seconda parte del 2011, ci ha dato parecchie soddisfazioni per mano di gente come Walkabouts e Jesse Sykes and the Sweet Hereafter. Per Ryan Boldt (voce e chitarre), Burke Barlow (chitarra), Geoff Hilhorst (organo e pianoforte), Chris Mason (basso e backing vocals) e Lucas Goetz (percussioni e pedal steel), la tradizione folk che affonda nei miti ancestrali degli Appalachi è una vecchia pietra preziosa da levigare e cesellare fino a ottenere sfolgoranti gioielli old-style, melodie atemporali scure, austere, di una linearità che fa impressione.

La semplicità è la matrice di questi brani che hanno quasi del miracoloso per come ti ammaliano senza alcun effetto speciale, ma solo con un uso magistrale dei vecchi trucchi del mestiere: una bordata di fiddle o un ciondolare di banjo qua, un tappeto di pedal steel o una coda d’organo là. Il vivace mulinare della sei corde dell’iniziale Westside Street (tributo alla loro città, Saskatoon) si dirada immediatamente grazie alla superba title track, un folk scarno e rigoroso che con gli archi ravviva gli antichi rimpianti di un’anima errante e prosegue, senza mai cedere di un centimetro, tra ballate malinconiche (Mary’s Gone, ennesima storia di un abbandono esaltata dalla pedal steel, ma soprattutto la maestosa The banks of the Leopold Canal su un misconosciuto teatro di guerra che vide cadere numerosi soldati canadesi), blues solo appena un po’ pacificati (I Just Can’t Lose), preghiere laiche (Big City Lights) e country da manuale (il fiddle di Virginia, su una donna che approfitta spietatamente di un uomo innamorato).

L’anima scura del disco si fa ancora più vivida con un paio di lugubri murder ballad tra Mark Lanegan e Nick Cave: Never Prove False e The ballad of Frank Dupree (storia di un condannato che si pente sulla forca), ci conducono a profondità inquietanti, esaltate dal timbro cupo del frontman Ryan Boldt. E Dear John, puro vintage divertito e luminoso, è solo una gustosissima eccezione che conferma la regola di un disco magnifico per l’intera ora di durata. Se è vero che la vita è un continuo camminare sul filo tra inquietudine e pacificazione, The Place I Left behind ne rappresenta il quadro perfetto. Un quadro che fareste bene ad appendere nel vostro miglior salotto.


    


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