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to the roots di
Nicola Gervasini (30/01/2013)
Tra
i nomi più in auge negli ultimi quindici anni in termini di musica delle radici,
quello di Ben Harper è sicuramente uno dei più discussi. Grazie alla notorietà
acquisita ai tempi del vendutissimo Diamonds On The Inside, la sua arte ha collezionato
sì miriadi di fans improvvisati (che sono gli unici che possono "fare mercato"
oggigiorno), ma ha richiamato anche l'attenzione di tanti accaniti detrattori.
E' il destino inevitabile di chi ce l'ha fatta ad uscire da una nicchia senza
aver poi particolari meriti né demeriti, se non magari quello di essere arrivato
molto prima di altri ad anticipare un modo di fare roots-music che più che agli
anni 90 appartiene al duemila. Chi lo tratta con sufficienza si fa forte di una
discografia che, dopo il buon livello tenuto per i primi cinque titoli, si è barcamenata
con prove non sempre degne del suo buon nome.
Fa riflettere soprattutto
che l'unico album dei suoi anni zero ad aver convinto tutti sia stata la collaborazione
con i Blind Boys Of Alabama nel gospel-oriented There
Will Be a Light del 2004 (vale a dire il suo disco teoricamente più
classico e prevedibile), mentre quando il nostro ha tentato vie più rivolte al
nuovo indie-rock, i risultati hanno raggiunto anche il disastroso (Give Till It's
Gone ). Lo conferma anche Get Up!, collaborazione a lungo cercata
con l'armonicista Charlie Musselwhite, arrivata a confermare che forse
Harper dovrebbe arrendersi all'evidenza di essere un ottimo performer di gospel-blues
e non certo un innovatore o un grande autore rock. Qui non siamo ai livelli d'intensità
di There Will Be a light, ma appare subito chiaro che questi dieci brani ristabiliscono
un contatto più umano tra la sua musica e le nostre orecchie, grazie soprattutto
alla scelta di non voler strafare e di seguire giri blues classici (I'm
In I'm Out And I'm Gone) e spaziare dal blues più nero (la lunga e
strascicata title-track) a soluzioni più "bianche", quasi da "brit-blues" alla
John Mayall (She Got Kick).
La bravura
di Harper in questo caso sta tutta nel far risaltare una voce non certo potente
e da vero bluesman, mentre Musselwhite come al solito conferma di essere uno dei
pochi armonicisti blues ad aver capito quanto "less is better" con uno strumento
che, se abusato, può stancare facilmente. Nell'economia del buon risultato manca
forse il brano killer, ma nel complesso il mix di episodi rilassati (Don't
Look Twice, You Found Another Lover) alternati a veementi sfuriate
(l'incattivita I Don't Believe A Word You Say
e la rauca Blood Side Out) piace non poco,
soprattutto se condito con qualche variazione gospel (We Can't End This Way)
che non guasta mai. Normalmente se un artista si rifugia in un disco "di genere"
non è mai un buon segno di vitalità artistica, ma nel caso di Harper potremmo
fare un'eccezione e consigliare un più frequente "back to the roots" .