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songs of faith and devotion di
Yuri Susanna (02/05/2013)
Haw
è il nome di un fiume della Carolina del Nord, un affluente del Cape Fear River
che ha origine nell'altopiano del Piedmont. Un simbolo naturale che delimita bene
il campo d'azione di Hiss Golden Messenger nella prassi della folk music
contemporanea, lontano dalla superficiale estetica indie-folk di questi primi
anni '10 (indipendentemente dal giudizio che abbiate sui vari Mumford, Lumineers
e compagnia strimpellante), e anche dal recupero stilistico della purezza pre-bellica
del bluegrass e dell'old-time music. Quello tenuto in vita dal collettivo musicale
guidato da MC Taylor è piuttosto un ecosistema musicale aperto, un organismo vivo
le cui parti concorrono in egual misura al proprio sostentamento. Il country,
il soul, il gospel, il folk, il blues abitano uno spazio comune con naturalezza,
alimentandosi a vicenda. L'equilibrio raggiunto nella musica è certamente anche
lo specchio della ricerca di un equilibrio più profondo, interiore: queste canzoni
sono la preghiera di chi cerca una serena accettazione del dolore, di chi ha compreso
che le risposte sono solo illusioni momentanee ma non ha smesso comunque di fare
domande, di interrogare le contraddizioni della realtà.
L'invocazione
iniziale di Red Rose Nantahala, è chiara:
"let me be the one I want". Ma per giungere all'atto di fede della conclusiva
What Shall Be (Shall Be Enough) bisogna affrontare
predicatori dalla lingua biforcuta, liberarsi delle catene ("You will be the last
one to walk in chain", canta Taylor nell'accenno di psichedelia di Sufferer)
e venire a patti con il male (The Serpent Is Kind (Compared
to Man), un titolo eloquente). Interrogativi spirituali, immagini bibliche,
abbandono e speranza sono la cornice di un viaggio verso una lontana, agognata
foce, mentre un'accolita di musicisti/complici - il fido Scott Hirsch, vari amici
della scena alt-folk del North Carolina, (membri di Black Twig Pickers, Megafaun
e Bowerbirds), più William Tyler (Lambchop) e la sua Telecaster - cuce insieme
il rock con il soul, il country con il gospel (I've Got a Name for the Newborn
Child), il blues con gli archi (Devotion),
il folk con il jazz (la lunga Cheerwine Easter,
attraversata da un sax liquido e obliquo), il funk con il reggae (Busted Note,
che contiene una citazione di Fisherman dei Congos), JJ Cale con Curtis Mayfield,
Willie Nelson con Mississippi John Hurt.
In apparenza la musica di Haw
non è poi tanto diversa rispetto a quanto abbiamo ascoltato poco più di un anno
fa su Poor Moon:
ha guadagnato però molto in profondità e in definizione. E viene da chiedersi
dove sia stato nascosto Taylor fino a ieri, considerata la complessità della sua
visione e la facilità con cui riesce a darle forma. E' probabilmente il meticciato
roots della Band, per quanto impegnativo, il punto di riferimento più prossimo.
Haw, però, non è solo un fiume: era anche il nome dell'antica tribù pellerossa
che abitava lungo le sue rive, spazzata via dalla storia quasi tre secoli fa.
Le canzoni di questo disco ne evocano in qualche modo il fantasma. Se avviciniamo
l'orecchio, ci sembra quasi di sentire il placido cuore della terra pulsare tra
le note, il fiume gorgogliare e gli uccelli cantare (quelli li sentiamo davvero,
in sottofondo al brano strumentale Hark Maker), eco remota di una pace e di un'armonia
perdute e da ritrovare. Che il Grande Spirito sia con noi.