Houndstooth
Ride Out The Dark
[
No Quarter
2013]

houndstooth.virb.com
www.noquarter.net

File Under: paisley's memories

di Fabio Cerbone (01/10/2013)

L'affascinante alchimia sonora degli Houndstooth - familiare e dipendente da strade maestre del folk rock americano, ma mai scioccamente imitativo - dipende forse anche dalla strana geografia della band, un mix di incontri e miglia percorse che sono confluite a Portland, città artistica per eccellenza e nuova mecca dell'indie rock americano da qualche anno a questa parte, dai più diparati angoli del grande paese. Due espatriati di Austin, la vocalist Katie Bernstein e il chitarrista John Gnorsky, hanno trovato le presunte anime gemelle in due musicisti di Detroit e un canadese, adagiando la radice country rock e il fervore sudista di partenza su un letto di ballate dai tenui colori psichedelici e dai tempi imbambolati. Tra gli album chitarristici più intriganti ascoltati di recente, Ride Out the Dark è un piccolo grande esordio che non mancherà di solleticare le fantasie di chi sente ancora vicino al cuore l'eco del Paisley Underground e di quel rock collegiale che negli anni 80 riscriveva dalle cantine le tracce dei lontani sixties con rinnovata freschezza.

La chitarra riverberata di Gnorsky è l'assoluta mattatrice di queste canzoni, con lontani echi surf che si intersecano sulla via che fu di Peter Buck e Karl Precoda (Dream Syndicate), mentra la vocalità quasi svogliata e assolutamente dimessa di Katie Bernstein scoperchia sapori che in passato abbiamo riconosciuto in Hope Sandoval (Mazzy Star) e Margo Timmins (Cowboy Junkies). Queste le impegnative suggestioni, con tutti i dovuti distinguo di tempo e stile personale, che solleva un disco come Ride Out the Dark, introdotto da un trittico che suona come un manifesto: il dondolio assorto di Thunder Runner, la cavalcata western di Baltimore e una strepitosa Canary Island, che mette insieme le dinamiche elettriche di Neil Young & Crazy Horse con uno trasognato folk rock dal timbro californiano, tracciano le coordinate degli Houndstooth con una precisione incontestabile. Gnorsky divaga il giusto senza mai eccedere in protagonismi inutili, mentre l'organo di Mike Yun puntella sullo sfondo canzoni che sembrano fatte di impressioni, sottili nel penetrare all'ascolto.

La sei corde risuona nell'impasto jingle jangle dei Byrds e si trasferisce a piè pari nella "nuova psichedelia" che infiammò su continenti opposti band quali Rain Parade e The Church e trovò infine la sua sintesi perfetta nella prima parte di carriera dei REM: provate con l'incalzante volteggiare di Strangers, seguite lo scheletrico ritmo di Wheels of Fire (che un dazio lo deve pagare anche ai Feelies, giusto per aumentare la girandola di citazioni, in un albero genealogico che solletica l'ascoltatore smaliziato), libratevi sulla cresta lisergica della tonante Francis e fatevi infine sommergere dall'umore languido di New Illusion, seguendo l'immaginario da America defilata, un po' spettrale, che emerge dai testi della Bernstein. Nella coda l'album sembra placarsi un po', cercando più la maniera (e l'uniformità) e meno il colpo d'ali, ma trattandosi di un debutto c'è di che restare elettrizzati: una delle sorprese emergenti dall'oscurità rock americana del 2013.


    


<Credits>