Ray Wylie Hubbard
The Grifter's Hymnal
[
Bordello Records  
2012]

www.raywylie.com


File Under: country rock, swamp blues

di Fabio Cerbone (10/04/2012)

Da quando Ray Wylie Hubbard si è costruito la sua corazza indipendente, dando vita ad una etichetta personale e organizzando intorno a sé un team di collaboratori e musicisti fidati, la sua carriera ha subito un'impennata di visibilità. Non solo: la sua opera di pigmalione per diversi songwriter texani (da Slaid Cleaves a Cory Morrow) e persino di regista occulto (le produzioni per The Band of Heathens) hanno rafforzato la sua posizione di saggio maestro, uno degli originali che dalla stagione lontana degli Outlaw (ha pur sempre scritto l'immortale Up Against the Wall, Redneck Mother) è riuscito a reinventarsi nel grande circo Americana di oggi. Tuttavia, che a tale quantità corrisponda anche una speculare qualità non è sempre scontato e le scadenze più ristrette (in fondo per molti anni Hubbard è rimasto in esilio, quasi nell'ombra) hanno impresso un'urgenza alle sue canzoni tale da sballottarle fra alti e bassi.

Quindi, in una sorta di alternanza fra tenebrosi momenti blues e ballate maggiormente ancorate alla sua educazione da country troubadour, Hubbard continua il suo viaggio fra bene e male, tra le forze della natura e le pulsioni umane che trapelano dalle liriche, ora apocalittiche, ora peccaminose, altre volte ancora dotate di uno spicciolo senso di ironia. The Grifter's Hymnal ricade senza ombra di dubbio nella categoria degli album a forte impronta nera: come furono già il tignoso Snake Farm e il più fluido Growl, con assai meno varietà del precedente A. Enlightenment B. Endarkenment, questo episodio disografico rispolvera uno swamp blues limaccioso e ossessivo dove i tamburi battenti (Rick Richards) di Coricidin Bottle, il taglio acustico e rurale di Lazarus e il boogie insozzato di New Year's Eve at the Gates of Hell dettano le regole spicce dell'intero album. Alle chitarre del figlio Lucas si aggiungono Audley Freed (ex Black Crowes) e Brad Rice, in una muraglia di riff che mettono insieme gli aromi del Delta del Mississippi con un country blues dalle maniere forti e diaboliche, ma anche capace di calarsi in atmosfere più polverose.

Il tentativo non è nuovo, come si è detto, e regge soprattutto per la forza interpretativa di Hubbard: quando gioca a fare gli Stones in South of the River strappa un sorriso, ma i momenti più misteriosi e sinistri quali la flessuosa Moss and Flowers e il finale di Ask God sono il vero fulcro della sua opera. Restano anche gli sprazzi più ispirati di un disco che altrove mette in fila lo stesso rantolo blues ripetuto all'infinito: in Red Badge of Courage è più cadenzato e fedele allo stile downhome (roba degna di Junior Kimbrough, insomma), in Train Yard accelera e nella speculare Mother Blues ritrova la via delle radici, mentre la litania per mandolino e slide di Coochy Coochy porta addirittura la firma di mr. Starkey (ovvero Ringo Starr, che partecipa attivamente con seconda voce e batteria). Tutto estremamente roots nell'anima e nel suono, anche avvolgente se amate queste ambientazioni, ma sulla distanza un po' troppo monolitico.


   


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