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loud & proud di
Nicola Gervasini (18/06/2013)
Massì…dai…perché no? E facciamoci un nuovo giro americano con Willie Nile.
"Non hai bisogno del biglietto, non hai niente da dichiarare" ci rassicura lui
dalle note di This Is Our Time. Più che un
brano, una sorta di manifesto di appartenenza ad una tribù, compreso il richiamo
a collaborare tutti alla realizzazione di American Ride, album nato
grazie al generoso crowdfunding del sito PledgeMusic. E opera che già circola
con due copertine (e ordine di tracklist) diverse: la prima è la release indipendente
nata dalla colletta (con foto decisamente artigianale), la seconda è invece la
pubblicazione ufficiale della Loud & Proud (Blue Rose in Europa), forte di una
cover graficamente più accattivante. E chissà che questo trip americano non porti
qualche adepto in più a quello che già negli anni ottanta ci insegnavano a considerare
come il loser per eccellenza.
Lui nel frattempo, dopo aver dimostrato
con album di altissimo livello come Beautiful Wreck of the World e Streets of
New York che tanti anni di inattività discografica sono davvero stati un peccato,
ha intrapreso un lungo tour de force di concerti ad alto tasso di adrenalina.
Tanto sudore e soprattutto una musica che si è fatta via via sempre più urbana
e meno autoriale. E se il precedente (e a conti fatti deludente) The Innocent
Ones pareva un disco di american-punk fatto da Willie Nile, American Ride invece
suona subito come un disco di Willie Nile influenzato dal punk americano, e la
differenza è sostanziale. I Ramones, che lui va proponendo ormai da alcuni anni
anche dal vivo, si sentono ancora, ma intanto lo si sente riabbracciare certo
blue-collar rock di un tempo (evidente nella title-track) con rinnovata convinzione.
Stavolta quindi il viaggio è ben bilanciato tra momenti romantici (She's
Got My Heart), strimpellate tra amici (There's
no Place Like Home), giri rubati alla storia (Holy War sembra
una cover di All Along The Watchtower e non si vergogna a mostrarlo) e tanti e
continui omaggi ad una mitologia di New York che Nile sembra voler tenere viva
e vegeta (Sunrise in New York City, Life
On Bleeker Street).
La band (l'inseparabile bassista Johnny
Pisano, il sanguigno chitarrista Matt Hogan e il batterista Alex Alexander) lo
asseconda alla grande, gli ospiti ci sono ma non invadono (il nuovo chitarrista
degli Eagles Steuart Smith, le voci di James Maddock e della folksinger
Leslie Mendelson), le canzoni si nutrono di ispirazione ancora un po' altalenante
(si passa da brani convincenti come If I Ever See The
Light a divertissement senza troppo spessore come Say Hey),
ma l'insieme soddisfa. Certo, il viaggio ha un sapore decisamente nostalgico,
appartiene a quel mondo cantato dal Jim Carroll di People
Who Died, cover che Nile ripropone sempre da qualche anno nei suoi
live-sets e che qui trova degna consacrazione in studio, posta al centro di tutto
per ricordare che di rock un tempo si moriva, oggi a malapena ci si campa.