Anders Osborne
Peace
[Alligator/ IRD
2013]

www.andersosborne.com


File Under: New Orleans' rockin' jam

di Fabio Cerbone (12/10/2013)

Un lungo muro di feedback introduce Peace, titolo guida del nuovo album di Anders Osborne che intraprende la strada elettrica e densamente psichedelica di una ballata dai forti connotati "younghiani", il Neil Young che marcia compatto con i Crazy Horse in Zuma, per intenderci. Ha il sapore di un annuncio, il manifesto di un album che segue la costante trasformazione della musica di Osborne, dalle speziate pietanze roots e southern blues degli esordi alle trame funk e rock delle sue più recenti produzioni. Insieme ad American Patchwork e Black Eyed Galaxy, infatti, il qui presente Peace costituisce una probabile trilogia in casa Aligator, condividendo un percorso di ampliamento delle possibilità di scrittura del musicista di origini svedesi. Ecco perché quel breve ep pubblicato pochi mesi fa, Three Free Amogos, sembra oggi più un diversivo, uno spazio forse dove confinare l'anima soul e cantautorale di Osborne, oggi invece impegnato su un fronte nitidamente più ricco di groove con 47 e Let It Go.

Queste ultime sono la palestra per una chitarra che si apre a ritmi e solismi in cui un crudo rock dai profumi settanteschi si unisce alle radici blues e southern soul del musicista, nonchè alla solarità di alcune melodie. Fin dalla copertina, ironica, di sfida e bellissima, Peace è un disco di contraddizioni e opposti, dove Osborne sembra affrontare una nuova età della sua vita: scorrono difatti molte tematiche personali, quasi domestiche, a caratterizzare i brani, così come una girandola di stili che volgono dal classico blue eyed soul di Sentinental Times alle ritmiche in levare di Sarah Anne, dalle code strumentali di Dream Girl e Windows, ballate che sintetizzano uno percorso di suoni e forma acquisito nei due album precedenti, all'assalto frontale di Five Bullets, l'episodio più arrabbiato, anche in termini di liriche, dell'intero Peace, con riff hard rock e un serrato talkin' in odore di black music. Messa così la questione, c'è dunque materiale sufficiente per spiazzare, ma ad unire il tutto rimane la voce dello stesso Osborne, capace di affrontare nuove sfide nella delicata espansione di My Son (un finale che si inerpica ancora fra colorazioni psichedeliche foglie dei Grateful Dead) e di tornare alla formazione soul rock di I'm Ready, una delle finestre più "classiche" aperte nel disco, per la storia di Anders Osborne.

Prodotto nell'amata terra di Lousiana con Warren Riker e sospinto da un grondante combo dalle tensioni funk (Carl Dufrene al basso, Etic Bolivar e Brady Blade alle percussioni), Peace aggiunge così nuova linfa al cammino artistico dell'autore, pur non allontanandosi molto dalle intuizioni recenti: per strada si è perso non poco di quel profumo da gumbo che marchiava a fuoco splendidi lavori quali Living Room e Ash Wednesday Blues, dando al tempo stesso ad Osborne la possibilità di sperimentare inediti percorsi con la sua chitarra. Una punta di rammarico resta, ma la solidità di Peace sembra chiudere un ciclo, magari facendo presagire altri imminenti cambi di rotta. Segnali di un musicista coraggioso.



     


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