Kim Richey
Thorn in My Heart
[Yep Roc/ Lojinx  
2013]

www.kimrichey.com


File Under: americana songstress, pop rock

di Fabio Cerbone (25/06/2013)

La ricerca di una identità musicale è sempre stata la molla che ha spinto la carriera di Kim Richey: croce e delizia, potremmo dire, della produzione di questa interessante voce femminile, mai però assurta al ruolo che altre colleghe ricoprono oggi in quel mondo al confine tra canzone d'autore, folk rock e Americana. Avrebbe potuto essere un'altra Patty Griffin, con una intensità di voce diversa eppure emozionante a livelli simili, oppure una Shawn Colvin con una sensibilità più rurale nei suoni: di fatto resta un'apripista inconsapevole per le varie Tift Merritt, Kathleen Edwards o Allison Moorer, che raccolgono i frutti di uno stile per cui oggi il pubblico sembra maturo. Non altrettanto fu agli esordi per Kim Richey, che sfiora la soglia dei vent'anni di incisioni ripensando ai suoi primi passi nashvilliani, all'idea di diventare una nuova regina del "contemporary country" come si diceva un tempo, salvo poi abbandonare il terreno e seguire l'ispirazione del momento.

Molte collaborazioni per questa autrice originaria dell'Ohio e cresciuta nei caffé musicali del Tennessee, anche una discreta girandola di etichette e occasioni mancate con Mercury, Lost Highway, Vanguard, prima di finire, per destino e vocazione, su una indipendente di lusso come la Yep Roc. È un po' la radiografia di un album come Thorn in My Heart, dove alla produzione di Nelson Hubbard (confermato all'indomani dell'interessante Wreck Your Wheels) e alle presenze di Carl Broemel (My Morning Jacket), Pat Sansone (Wilco) e Will Kimbrough segue naturalmente un esito finale dove cadenze notturne, tentazioni country e sensibilità pop trovano uno spazio comune in cui incontrarsi. È l'ennesima giravolta dunque, dopo le indecisioni di Rise e persino le ambizioni lussureggianti di fiati e archi che adornavano Chinese Boxes. Eppure, nella insofferenza che agita lo stile della Richey, Thorn in My Heart appare forse come il prodotto più completo e sincero della sua parsimoniosa discografia, sicuramente uno dei più omogenei ed eleganti, come sottolineano con prepotenza le note della suadente title track.

Il trascinarsi malinconico di queste ballate è il tratto essenziale di un'interprete che sa finalmente scegliere i musicisti, le sfumature, gli umori più adatti ad ogni sua confessione: canzoni per giornate di pioggia come in London Town, splendida e nostalgica nell'inserto di Dan Mitchell al corno francese, nella calma accogliente di Angel's Share e di quel magico violino, mentre I Will Wait è bluesy come la migliore Lucinda Williams e No Means Yes mischia Americana e vibtazioni soul che piacerebbero a Norah Jones. Certo, si continuerà ad imputarle rarissimi scossoni alla sua sceneggiatura (qui arriva giusto il pop rock rotondo e incalzante di Come On), ma i tremori country di Something More e I'm Going Down, con brevi, efficaci inserti di banjo e mandolino, o il toccante duetto di Break Away Speed con Jason Isbell, in perfetto equilibrio Americana, sono episodi che lasciano finalmente un segno tangibile dle suo talento.


     


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