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electric country&western di
Fabio Cerbone (02/12/2013)
C'è
una differenza sottile (ma importante) tra chi semplicemente imita, riproduce
e cita il passato come fosse un museo a cielo aperto da saccheggiare e la musica
dei quattro The Sadies, con ogni probabilità tra i candidati più noti alla
"retromania" rock nel piccolo mondo dell'Americana. Già, perché loro, oltre ad
essere musicisti eccelsi, con una tecnica da funamboli (visti dal vivo sono uno
spettacolo nello spettacolo) eppure mai sopra le righe, evocano, suscitano continui
rimandi, semmai predano con destrezza mettendo avanti fantasia strumentale e personalità.
Ecco dunque che non riesce proprio di liquidarli come un retaggio del revival
country rock a tutti i costi, magari furbo e inconsistente: niente affatto, dopo
quindici anni di carriera per etichette prestigiose come Bloodhshot e Yep Roc,
dopo una decina abbondante di album a proprio nome, collaborazioni a non finire
(Neko Case, John Doe, Jon Spencer e decine d'altri, a dimostrane l'eclettico talento)
e una impressionante regolarità compositiva, The Sadies hanno ancora qualcosa
da farci scoprire.
In Internal Sounds riescono persino a
ribaltare le certezze del precedente Dark Places, un disco più riflessivo e maturo,
portando oggi a termine quella che è probabilmente la loro opera più istintiva
e trascinante in termini strumentali, un turbine di arroventati rock'n'roll dal
passo country&western che sembra cristallizzare per sempre lo stile della band
dei fratelli Dallas e Travis Good. Dannatamente irresistibili nell'interplay delle
loro chitarre, ibrido suggestivo perso da qualche patre tra il surf dei Ventures,
la psichedelia dei 13 floor Elevators e il jingle jangle dei Byrds, con un senso
dell'epica West che pare uscire direttamente da una colonna sonora di Ennio Morricone,
The Sadies mandano a bersaglio una mezz'ora e poco più di travolgente elettricità,
uno dei dischi di chitarra rock più spumeggianti che sia capitato di ascoltare
nel 2013. Potremmo partire dal pressante garage rock di Another
Tomorrow Again, a rotta di collo tra echi sixties e un duellare di
riff che sintetizza la lunga strada dalla California acida all'alternative country.
La scioltezza con cui i fratellini Good (che questa volta producono e dirigono
la baracca in totale indipendenza) maneggiano le loro materie preferite ha il
passo dei veterani: The First 5 Minutes ci
mette anche dell'ironia, a cominciare dal titolo, aprendo le danze con cinque
minuti (appunto) di sgroppate psichedelice, prima di entrare nella vallata country
di So Much Blood, uno degli episodi formalmente
più tradizionali dell'album insieme all'alt-country da manuale di
Leave This World Behind.
Internal Sounds colpisce però
di primo acchitto per il suo lato più irruente, in quel stare perfettamente in
opposizione al suo predecessore: The Very Beginning è
un'altra baraonda rock'n'roll dai toni garagisti; la chitarre diventano spaziali
in Starting All Over Again, cascata di riff squillanti e rivistazione dei
Byrds in una chiave degna quasi dei giorni migliori del Paisley Underground; Another
Yesterday Again sfiora i pascoli del roots rock che fu dei Long Ryders;
STORY 19 visita luoghi oscuri e sentimentali, ballata che si dilata improvvisamente
in un finale saturo e minaccioso. L'ossessivo ma placido raga folk di We
Are Circling, con la litania vocale dell'ospite Buffy St.Marie,
chiude con inaspettata singolarità questa ennesima dimostrazione di inventiva
dei quattro canadesi di Toronto. Peccato li noteranno ancora i soliti colleghi
illuminati e pochi altri settari adepti del rock'n'roll: noi ci siamo, nonostante
tutto.