Ron Sexsmith
Forever Endeavour
[Cooking Vinyl
2013]

www.ronsexsmith.com


File Under: soft folk rock

di Fabio Cerbone (11/02/2013)

Quel volto conserva ancora qualcosa di irrimediabilmente fanciullesco, ma l'età passa anche per Ron Sexsmith, giunto al limitare dei vent'anni di carriera con una regolarità impressionante e una altrettanto ingenerosa indifferenza da parte del grande pubblico. Avrebbe avuto tutte le carte in regola per diventare un songwriter "generazionale", se solo fosse uscito allo scoperto in un'epoca di gentili melodie folk e malinconia pop, quando la stagione degli Harry Nilsson, dei Gordon Lightfoot e dei Cat Stevens spadroneggiava e una ballata acustica, un leggero tappeto d'archi, un po' di miele e di agrodolce nostalgia poteva persino entrare in classifica. Oggi l'inconfondible, raffinato tremolio della voce di Sexsmith è un segreto per pochi intimi, nonostante continui ad essere portato in palmo di mano dai colleghi musicisti, avvalendosi di collaborazioni di volta in volta tra le più prestigiose.

In Forever Endeavour torna la "regia" di Mitchell Froom, un nome, una garanzia in fatto di moderno cantautorato, che aveva lanciato la corsa di Ron Sexsmith a metà anni Novanta, mentre in studio spuntano i nomi di Davey Faragher (Cracker, John Hiatt) e Michael Urbano (Cracker) alla sezione ritmica, Greg Leisz alla pedal steel e Bob Glaub al basso, cui si affiacano orchestrazioni d'archi mute e delicate e qualche inedito sprazzo di soul music e New orleans. Un disco che riflette il tempo che scorre, la mortalità (Sexsmith esce da un periodo delicato, in cui un tumore alla gola, per fortuna rivelatosi beningno, sembrava avere cambiato prospettive e intenti della sua stessa vita) e il peso delle sconfitte, trovando le ragioni di quanto di buono raccimolato lungo la strada. Il classico disco della maturità insomma, che nel caso del nostro protagonista assume anche il significato di una musica blanda, quasi da crooner (Lost in Thought, il finale languido di Autumn Light), dove il calco acustico delle composizioni si apre sulle note di Nowhere to Go e prosegue nelle timide percussioni di Nowhere Is e nella soffice melodia di If Only Avenue, svelando piano piano un album più meditativo del previsto, a tratti indulgente e un po' ripetitivo.

Melodie tenere, a volte innegabilmente coinvolgenti (quando si apre al pop dalla fragranze sixties di She Does My Heart Good), anche se l'impressione è quella di una ricercata maniera, che prova a sposare la tristezza di Tim Hardin e Nick Drake con i colori pop di Donovan (il delizioso quadretto retrò di Back of My Hand), sfiorando tuttavia un mezzo capolavoro nel rubicondo soul di Snake Road e strappando un sorriso nel gustoso quadretto demodè di Me Myself and Wine, dixieland rivisto e corretto alla maniera di Ron Sesmith naturalmente. Nulla per cui non si possa tributare una volta di più un plauso all'intelligenza dell'autore, al suo understatement, nonostante si abbia l'impressione che il meglio, artisticamente parlando, sia ormai alle spalle.


     


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