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1980
Bob Seger
& The Silver Bullett Band
 Against the Wind  [Capitol]

L'epica della working class di Detroit era stata dalla parte giusta della corrente proprio grazie a lui per tutta la seconda metà degli anni 70, ma negli anni 80 il vento sarebbe cambiato, e anche per Bob Seger sarebbero finiti gli anni ruggenti. Lui però nel decennio ci era entrato con tutto l'ingenuo romanticismo di questo disco, che fu anche il suo ultimo a non essere controvento e a vendere cifre da capogiro. Equamente diviso tra il suo caro "old time rock and roll" e le ariose ballate acustiche che gli diedero fama e soldi, Against The Wind fu l'epitaffio di una generazione che stava per abbandonare la scena al grido disperato di "Let The Cowboys Ride!". Purtroppo l'unico cowboy che cavalcò negli anni 80 stava alla Casa Bianca ad uccidere i sogni di tutti i bei perdenti segeriani. (NG)

Take #2, prova anche: The Distance (Capitol 1982)


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1980
Joe Grushecky
& The Iron City Houserockers
 Have a Good Time But Get Out Alive  [MCA]

Dai sobborghi operai di Pittsburgh, un treno merci di r'n'r anni '50, sfuriate elettriche e pennate hard riassunto alla perfezione dall'anthem Pumping Iron, una dedica a tutti i sognatori che inseguono la redenzione del rock pur trovandosi intrappolati in un lavoro in fabbrica, magari ereditato dal padre. 12 proiettili acuminati in cui la vena springsteeniana del leader Joe Grushecky (mai più così ispirato) tratteggia un irripetibile affresco blue-collar consumato da rabbia e passione, disperazione e desideri, illusioni spezzate e brutali verità. Gli Iron City Houserockers resteranno un culto per pochi, ma quei pochi avventori di Have A Good Time But... Get Out Alive! (o degli altri tre album realizzati dal gruppo tramite la stessa ragione sociale) non avranno dubbi nell'incoronarli "migliore bar-boogie band d'America". (GC)

Take #2, prova anche: Rock & Real (Rounder 1989)


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1980
Willie Nile
 Willie Nile  [Arista]

Willie Nile, o della poesia della strada. Il successivo Golden Down (1981) concentrerà le proprie attenzioni su di un'epica urbana e rabbiosa degna della Patti Smith Band, ma questo debutto omonimo è all'incirca il più avvicente periplo newyorchese di Bob Dylan che Dylan non ha mai compiuto. L'armonica taglia le notti sulla Bowery, il pianoforte singhiozza le sue ballate per una ragazza distante e fredda, il crepitio elettrico delle chitarre traccia un ponte tra il fiume Hudson e la cattedrale di San Patrizio in midtown Manhattan, sul lato est della 5th Avenue. Il confine della terra si trova lì, tra la 50esima e la 51esima strada rischiarate da una luna zingara, dove, come qualcuno tradurrà liberamente in italiano due anni dopo, "chi ride illumina i vicoli e i solai / e riempie di stelle i bassifondi con tutti i dolori e i guai". (GC)

Take #2, prova anche: Golden Down (Arista 1981)


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1981
David Johansen
 Here Comes the Night  [Blue Sky]

New York, New York. Lo skyline brulicante di luci artificiali. Bambole e rossetti. Il calypso di Rollin' Job. Il riflusso punk nel Lower East Side. La notte e la città. L'armonica di Elliott Murphy che piange soul su Heart Of Gold. "Tu pensi sia una puttana / Invece ho un cuore d'oro / Proteggilo dal freddo." Lattine scagliate sul palco del CBGB. Il romanticismo beat di Bohemian Love Pad. L'albeggiare metallico sul fiume Hudson. Le chitarre sanguinanti di My Obsession e She Loves Strangers. Here Comes The Night è il terzo album licenziato da David Johansen dopo aver capitanato le New York Dolls e prima della trasformazione in Buster Poindexter. E' aguzzo, trascinante, drogato, malinconico, sexy. E' una sbornia di emarginazione e neon che diventa musica. E' rock'n'roll. (GC)


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1981
The Db's
 Stands for Decibels  [IRS]

E' quasi inevitabile chiedersi cosa impedì ai Db's di diventare i R.E.M. prima dei R.E.M: in apparenza non mancava loro nulla, a partire dalla capacità di aggiornare la tradizione sixties con la lezione della new wave. Diviso tra il songwriting nervoso di Peter Holsapple (esemplare il singulto elettrico di The Fight) e quello sognante di Chris Stamey (responsabile delle derive beatlesiane), questo esordio pubblicato in Inghilterra è un compendio di intuizioni pop diluite in armonie chitarristiche e vocali rubate a Big Star e Byrds e sorrette da ritmiche esuberanti. Paga forse il paradosso di un'eccessiva complessità nella ricerca della semplicità: le canzoni chiedono di farsi corteggiare un po', prima di rivelare la loro natura di ammalianti pop songs da tre minuti. Poi, sarà amore eterno. (YS)

Take #2, prova anche: Repercussion (IRS 1982)


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1981
The Flesh Eaters
 A Minute To Pray, A Second To Die  [Ruby]

Prende il nome da un b-movie degli anni '60 diretto dal pornografo arty Radley Metzger, la creatura più importante di Chris D. (al secolo Desjardins), autentico prime-mover del punk californiano. I suoi Flesh Eaters combinano rimandi gotici e rock claustrofobico, citazioni horror e vocazione country (poi sviluppata con maggior pertinenza nel progetto Divine Horsemen), la chitarra di Dave Alvin (Blasters) e la voce scartavetrata di John Doe in un matrimonio che rimarrà travolgente fino al sottovalutato A Hard Road To Follow (1983). A Minute To Pray, A Second To Die - l'album più completo - scaraventa la Hollywood di Raymond Chandler in un lascivo rito ora garage (So Long) ora rhytm'n'blues (River Of Fever, Digging My Grave) cui ancora oggi, a distanza di 27 anni, è un piacere ineguagliabile abbandonarsi. (GC)

Take #2, prova anche: Forever Came Today (Ruby 1982)


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1981
The Fleshtones
 Roman Gods  [IRS]

Dal Queens newyorchese del cantante/tastierista/armonicista Peter Zaremba e del chitarrista Keith Streng ai capitelli in technicolor dell'antica Roma evocati dalla copertina, dagli American-graffiti di George Lucas a una celebrazione tra il serio e il faceto, con netta predominanza del secondo, del più famoso Bildungsroman di Joseph Conrad (citato nell'inequivocabile Shadow Line): i Fleshtones di Roman Gods, che segue di due anni lo scalmanato esordio American Beat e di altrettanto anticipa il più composto Hexbreaker!, cucinano a puntino schegge di twist per i giovani turchi del punk, rhytm'n'blues, surf, garage e r'n'r per la blank-generation. Continuano a farlo ancora oggi, e non hanno cambiato un solo ingrediente della propria ricetta, ma il loro nostalgico disimpegno non è mai più stato così glorioso e divertente. (GC)

Take #2, prova anche: Hexbreaker (A&M 1983)


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1981
Garland Jeffreys
 Escape Artist  [Epic]

Nel 1981 la musica era ormai preda dell'isteria futurista dell'elettronica, ma a far capire che nel sottobosco si stava organizzando una resistenza a base di sixties-sound fu l'entrata nelle charts di una cover di 96 Tears, un brano del 1966 dei dimenticati ? & The Mysterians. A proporla, in una travolgente versione caratterizzata da un organo pulsante, era Garland Jeffreys. Prodotto da un gigante del rock mainstream come Bob Clearmountain e particolarmente influenzato dal pub-rock inglese di Elvis Costello, Escape Artist faceva scorrere nei suoi solchi tutti gli umori delle strade di New York dei primi anni 80: rock, pop, reggae/ska, black music, roots-rock, persino strizzatine d'occhio alla dance. Di "crossover" se ne sarebbe parlato qualche anno dopo, ma Jeffreys ci stava già lavorando da tempo. (NG)


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1981
Gary US Bonds
 Dedication  [Emi]

"Anticaglia" per anni relegata alle celebrazioni dei cosidetti oldies, età dell'innocenza fra rock'n'roll e godereccio r&b, Gary Us Bonds non era stato evidentemente dimenticato dalle parti del New Jersey. Bruce Springsteen in persona si occupa di rimetterlo in pista: E Strett band a soffiare sulle polveri, produzione in team con Little Steven, un duetto e tre canzoni a sua firma per ripescare una voce di razza che lo aveva stregato con Quarter to Three. Dedication sarà il primo frutto di una collaborazione che proseguirà anche nel successivo On the Line. Un disco di romanticismo soul e vibrante rock urbano, fra sax e cori gospel ed una commovente versione di The Pretender (Jackson Browne). Praticamente une trasposizione in miniatura di The River incrociata con la passione degli Asbury Jukes. (FC)

Take #2, prova anche: On the Line (Emi 1982)

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1981
Guy Clark
 The South Coast of Texas  [Warner]

Esordire con uno dei dischi più belli, lirici e disincantati di tutti i tempi (l'ancora ineguagliato Old No. 1 [1975]) può rappresentare una promessa o una condanna. Non nel Texas sofferto e virile di Guy Clark, tuttavia, dove per mandare avanti la baracca sono sufficienti una birra gelata, un po' di sigarette, una bottega artigiana, qualche cavallo, un paio di cowboy-boots di buona fattura e un pugno di canzoni mai meno che memorabili. Quelle racchiuse in The South Coast Of Texas, prodotte da Rodney Crowell, suonate in pratica dalla Hot Band di Emmylou Harris al completo e accompagnate da diversi esponenti del new-country dell'epoca (Ricky Skaggs, Emory Gordy, Vince Gill e Roseanne Cash tra gli altri), parlano con sopraffino magistero roots di fughe e orgogli feriti, perdenti dal cuore d'oro e squillanti honky-tonk bar (GC)

Take #2, prova anche: Better Days (Warner 1983)



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