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03/10/2006
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Un po' di senno Jay Bennett
deve averlo mantenuto, altrimenti non avrebbe intitolato questo suo nuovo
album, il quarto da solista, The Magnificent Defeat, ovverosia
"la grandiosa sconfitta", che sconfitta lo è di sicuro e grandiosa, be',
lo è altrettanto per dimensione, scostanza e inconcludenza. Laddove The
Palace At 4am (2002) rappresentava il tentativo, peraltro abbastanza riuscito,
di ricostruirsi una verginità pop tra Velvet, Byrds e Big Star, già il
successivo Bigger
Than Blue ('02) era sembrato sì un passo avanti sugli stessi
sentieri, ma anche un deciso arretramento in termini di freschezza e ispirazione.
The Magnificent Deafeat, però, riesce ad andare oltre ogni aspettativa,
nel senso che è non solo ancora più brutto del già traballante predecessore,
bensì come mai prima d'ora confuso, velleitario, sconclusionato. L'impressione
è quella che Bennett abbia tentato di replicare l'astrazione e la ricerca
quasi sperimentale degli ultimi album dei Wilco, nella cui prima formazione
aveva militato, senza tuttavia preoccuparsi di rimescolare nel calderone
disorganico delle intuizioni anche un pizzico di disciplina. Sarà per
l'assenza di una band vera e propria alle spalle, dacché Bennett e David
Vandervelde, nonostante qualche comparsata da parte di vecchi compagni
di squadra come Edward Burch, Ken Coomer, John Stirratt e
Johnatan Pines, suonano pressoché ogni strumento per i fatti propri, eppure
l'ascolto dell'iniziale Slow Beautifully Seconds Faster
lascia a dir poco esterrefatti: un diluvio di percussioni, trilli, suonerie
telefoniche, fragori e cavernosità assortite del quale, pur con tutti
gli sforzi del caso, non si riescono proprio a comprendere senso o direzione.
Altrettanto oscura l'urgenza artistica delle dodici canzoni rimanenti,
divise con isteria schizofrenica tra boogie cabarettistici (Butterfly),
rockacci di quart'ordine (Wide Open, Replace You), sonnolento
intimismo (Thank You, 5th Grade), scopiazzature da Elvis
Costello e sviolinate pop tanto repentine quanto superficiali (I'm
Feeling Fine). Va un po' meglio con la coda dell'album, parzialmente
risollevata dalle impennate rustiche di Good As The Gold e della
traccia nascosta (Barely), placida oasi acustica la prima, scalcinato
country-rock da etilometro la seconda, e nondimeno vi si arriva quando
ancora brucia lo spreco di Overexcusers, bellissima canzone soffocata
dall'arrangiamento e da una sarabanda di effetti sonori del tutto fuori
luogo. All Music Guide definisce The Magnificent Defeat "un album che
ascolterete anche tra dieci anni, perché contiene tante cose diverse".
Un dato di fatto, quello del pluralismo dei contenuti, che nessuno mette
in discussione, ma siccome (sia detto senza ironia e senza alcuna voglia
di fare il reazionario a vita) devo essermi perso il peculiare momento
storico in cui "varietà" è diventato un sinonimo di "qualità", per me
The Magnificent Defeat resta semplicemente un disco indifendibile. |