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Chris
Mills
Living in the Aftermath
[Ernest
Jenning 2008]
 
Convintosi di essere destinato a quella che lui stesso definisce "una
perenne oscurità", da cui peraltro minaccia di liberarsi al più presto,
Chris Mills prosegue un cammino artistico che sembra averlo infilato
in un vicolo cieco, non tanto per i risultati ottenuti su disco (dagli
interessanti Kiss
it Goodbye e Silver
Line, già indagati su queste pagine, al più recente ambizioso
The Wall to Wall Session), quanto per la concreta indifferenza che ne
ha coperto le gesta. Tutto ciò nonostante quell'irresistibile, smanioso,
frizzante istinto pop che colora i suoi dischi più recenti di un rock
d'autrore figlio di Costello, di Marshall Crenshaw, di Nick Lowe, nonché
di una venatura alternative country, la stessa che lo aveva fatto accostare
al grande calderone del genere agli esordi.
Ispiratosi, fin dalla spiritosa copertina, all'iconografia dei b-movies,
degli horror da notte fonda e dei titoloni strillati sui giornali scandalistici,
Living in the Aftermath è un ritorno all'essenzialità dei
suoi primi lavori, abbandonando le orchestrazioni del citato The Wall
to Wall Session. Una benedizione per il songwriting, che può sgorgare
puro e sciorinare una mezz'ora di calibrate "canzoncine" che si attaccano
al cervello con una mira micidiale: sono sufficienti il volteggiare pop
di Calling All Comrades, con la tromba
di Dave Max Crawford e il piano scintillante di David Nagler, per tracciare
le coordinate della raccolta. Su questa falsariga sferrano calci ben assestati
Untitled No.1, bizzosa pop song con
chitarre in dorore punk ed un organetto che non sfugge ai richiami di
certo garage dei 60's, nonché la svelta Atom
Smashers (entra in gioco un violino, quello di Jean Cook),
il pulsare r&b di All's Well That Ends
e la deliziosa filastrocca retrò di I Guess This
Is Ewhy (They Invented Goodbye) che riprende una volta di più
l'esperimento di miscelare fiati soul, un pianoforte da saloon e una melodia
beat sbarazzina. Tra le increspature di un disco così sciolto e solare
c'è comunque il tempo per mettere in evidenza il cuore folk dell'autore
(si veda la chiusura acustica di Can't Believe),
il suo mai rinnegato rapporto con la storica scena rootsy di Chicago,
da cui deriva la collaborazione con la steel di Jon Rauhouse (Neko
Case, Calexico, Giant Sand), nella dolce Such
a Beautiful Thing e nel piccolo capolavoro Nightmare
at 20.000 Feet, quest'ultima capace di evidenziare il canto
appassionato di Mills.
Sulla peculiarità di Living in the Aftermath dunque non vale la pena spendere
altre parole, è ancora una volta un incantevole dipinto di umori rock'n'roll
e melodie fresche che non cambierà di una virgola la sceneggiatura già
scritta: Chris Mills è destinato ai margini, ma non ad essere un marginale,
quanto meno alle orecchie di chi avrà il gusto e la pazienza di scoprirlo.
(Fabio Cerbone)
www.chris-mills.com
www.ernestjenning.com
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