inserito 28/07/2008

Chris Mills
Living in the Aftermath
[
Ernest Jenning
 2008]



Convintosi di essere destinato a quella che lui stesso definisce "una perenne oscurità", da cui peraltro minaccia di liberarsi al più presto, Chris Mills prosegue un cammino artistico che sembra averlo infilato in un vicolo cieco, non tanto per i risultati ottenuti su disco (dagli interessanti Kiss it Goodbye e Silver Line, già indagati su queste pagine, al più recente ambizioso The Wall to Wall Session), quanto per la concreta indifferenza che ne ha coperto le gesta. Tutto ciò nonostante quell'irresistibile, smanioso, frizzante istinto pop che colora i suoi dischi più recenti di un rock d'autrore figlio di Costello, di Marshall Crenshaw, di Nick Lowe, nonché di una venatura alternative country, la stessa che lo aveva fatto accostare al grande calderone del genere agli esordi.

Ispiratosi, fin dalla spiritosa copertina, all'iconografia dei b-movies, degli horror da notte fonda e dei titoloni strillati sui giornali scandalistici, Living in the Aftermath è un ritorno all'essenzialità dei suoi primi lavori, abbandonando le orchestrazioni del citato The Wall to Wall Session. Una benedizione per il songwriting, che può sgorgare puro e sciorinare una mezz'ora di calibrate "canzoncine" che si attaccano al cervello con una mira micidiale: sono sufficienti il volteggiare pop di Calling All Comrades, con la tromba di Dave Max Crawford e il piano scintillante di David Nagler, per tracciare le coordinate della raccolta. Su questa falsariga sferrano calci ben assestati Untitled No.1, bizzosa pop song con chitarre in dorore punk ed un organetto che non sfugge ai richiami di certo garage dei 60's, nonché la svelta Atom Smashers (entra in gioco un violino, quello di Jean Cook), il pulsare r&b di All's Well That Ends e la deliziosa filastrocca retrò di I Guess This Is Ewhy (They Invented Goodbye) che riprende una volta di più l'esperimento di miscelare fiati soul, un pianoforte da saloon e una melodia beat sbarazzina. Tra le increspature di un disco così sciolto e solare c'è comunque il tempo per mettere in evidenza il cuore folk dell'autore (si veda la chiusura acustica di Can't Believe), il suo mai rinnegato rapporto con la storica scena rootsy di Chicago, da cui deriva la collaborazione con la steel di Jon Rauhouse (Neko Case, Calexico, Giant Sand), nella dolce Such a Beautiful Thing e nel piccolo capolavoro Nightmare at 20.000 Feet, quest'ultima capace di evidenziare il canto appassionato di Mills.

Sulla peculiarità di Living in the Aftermath dunque non vale la pena spendere altre parole, è ancora una volta un incantevole dipinto di umori rock'n'roll e melodie fresche che non cambierà di una virgola la sceneggiatura già scritta: Chris Mills è destinato ai margini, ma non ad essere un marginale, quanto meno alle orecchie di chi avrà il gusto e la pazienza di scoprirlo.
(Fabio Cerbone)

www.chris-mills.com
www.ernestjenning.com


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