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Conor
Oberst
Conor Oberst
[Wichita/
Merge 2008]

Il signor Occhi Brillanti ha gettato la maschera. A dieci anni
esatti dall'esordio indipendente con il già convincente Letting Go The
Happiness, uscito nel 1998 quando il nostro aveva la bella età di diciotto
anni, Conor Oberst ha deciso infine di mandare in soffitta lo pseudonimo
di Bright Eyes e di cominciare ad incidere usando solamente il suo nome
di battesimo. Già questo dovrebbe essere un segno, visto che il cambio
giunge quasi a consolidare una strada intrapresa dal 2005, quando con
I'm
Wide Awake, it's Morning, Conor/Bright Eyes aveva sterzato
verso sonorità più "classicheggianti" e cantautoriali, lasciandosi
alle spalle gli esordi più sperimentali e lo-fi e duettando perfino con
Emmylou Harris. Conferme le avevamo avute poi con il live Motion
Sickness, ancora del 2005, in cui il vecchio materiale veniva
rivisitato con una vena decisamente roots, con aperture verso il country,
e soprattutto grazie al successivo Cassadaga,
uscito un anno fa, che si innestava nel percorso tracciato da Dylan e
da Gram Parsons, passando per i Waterboys.
Era inevitabile, quindi, aspettarsi un album che proseguisse su questo
sentiero e, almeno stavolta, Conor non ci lascia affatto spiazzati. Questo
lavoro è infatti un disco di cantautorato classico, dylaniano, semplice
e diretto e che mette al centro non i suoni, come spesso avveniva negli
album a firma Bright Eyes, ma le canzoni. E bisogna riconoscere che Oberst
di come si scrive una canzone se ne intende, eccome. In più, anche la
voce mostra una crescita importante, non è più così cantilenante ed incerta
come agli esordi, ma si è fatta più sicura ed al contempo più aspra, dylaniana
appunto. A tratti, pare addirittura di sentire Tom Petty, come nel bel
rock and roll trascinante I Don't Wanna Die (In
the Ospital), o nella lirica Moab
(in cui Oberst canta che "Non c'è niente che la strada non possa curare",
quasi una dichiarazione di intenti), nei cui solchi pare davvero di intravedere
l'ombra del biondo della Florida e dei suoi Spaccacuori. Altrove, invece,
il songwriter di Omaha si avvicina di più a una scrittura meditativa che
si ricorda da vicino il piglio più intimista di un Josh Ritter o addirittura
la malinconia degli ultimi lavori di Bonnie Prince Billy, come nella nostalgica
Cape Canaveral, che apre il disco,
o nella latente tristezza della conclusiva Milk
thistle, che Oberst chiude mestamente con la frase "Se dovessi
andare in Paradiso sarei infernalmente annoiato come un bambino in lacrime
sul bordo di un pozzo".
E non è un caso che l'album si concluda in questo modo così buio. Infatti,
in tutte le tracce si legge una inquietudine di fondo, data dallo sgretolamento
del mito americano e di tutte quelle promesse e quei sogni che l'amministrazione
Bush sta prendendo a picconate ormai da anni (non dimentichiamo che Oberst
è stato protagonista del Vote For Change tour). In Lenders
in the Temple, scarna ballata per chitarra acustica con una
linea d'organo alle spalle a conferirle tensione, Oberst usa la metafora
evangelica dei mercanti nel tempio accanto ad immagini quasi apocalittiche,
che culminano con il mesto atto d'accusa "Cancella te stesso e sarai
libero", questa insoddisfazione si fa opprimente, mentre altrove,
come nella brillante Souled out!!!,
dall'atmosfera molto seventies, o nella citata Cape Canaveral, Oberst
sembra sottolineare con disincantato distacco il tramonto di un'epoca,
quella dei sogni, della "promised land" e del mito americano.
Insomma, ci troviamo per le mani un disco pieno di tensioni, di pensieri,
di tristezze, di cadute (molte) e di improvvisi moti di orgoglio (un po'
meno), da ascoltare possibilmente, noi italiani, con le liriche davanti
per coglierne appieno la profondità e i moti dell'animo che Conor Oberst,
ormai uno dei grandi songwriter di questa generazione, induce nell'ascoltatore
più attento.
(Gabriele Gatto)
www.conoroberst.com
www.myspace.com/conoroberst
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