Se Draw
the Line, soltanto dodici mesi fa su queste stesse pagine, era "un
lavoro onesto, senza trucchi o fuochi d'artificio" che riportava David
Gray al centro esatto delle sue canzoni, asciugato da qualche pur pregevole
orpello modernista, che di fatto però lo aveva segregato in un cul de sac artistico,
è sorprendente ritrovarlo a così stretto giro con un nuovo inedito episodio, e
per giunta doppio. Segno forse che la musa non lo ha affatto abbandonato - come
qualcuno si ostina a voler recitare all'infinito - e soprattutto che la sua voce
così soulful e ammantata oggi più che mai delle primarie radici folk rock si è
ripresa il suo spazio, con la voglia di sciogliere le briglie. Foundling
è fin dal principio un disco scarno e fragile, ma niente affatto raccimolato con
gli avanzi di una carriera, che svela passo dopo passo piccole minuzie, giochi
fra chitarre e pianoforte che sono il punto focale del songwriting del cantautore
inglese: conservando un'anima trasparente, un suono prettamente acustico e profondamente
ancorato alle origini del musicista, farà ricordare subito gli esordi di Gray,
seppure distante dall'esuberanza giovanile che li infondeva. E pensare che era
nato come sorta di progetto a margine delle registrazioni del precedente Draw
the Line, una seconda via di uscita da completare nei ritagli di tempo, nelle
pause di un lungo tour, con l'idea di metterci mano il meno possibile.
Ne
è uscita una fotografia quasi irreprensibile di un musicista che suona disarmato
più che mai nelle sue ballate, in confessioni poetiche che rimuginano su poche
parole e concetti universali (Dio, amore, tempo) dando piena forma al suo folk
rock romantico, fra la leggerezza di Only the Wine e
l'intensa preghiera di Foundling, trovando
la chiave di uno struggente cuore acustico in Gossamer
Thread, o nella pianistica, emozionante The
Old Chair, "gonfiata" da un elegante tappeto d'archi nel finale. Una
band in punta di piedi (tra gli altri i collaboratori Robbie Malone, Keith Prior
e Neill McColl con il produttore Lestyn Polston) entra in queste canzoni senza
fare rumore, trovando anzi la soluzione per rischiarare la cappa malinconica che
aleggia sull'album con semplici pop song (In God's Name,
fra i testi migliori, la solare Indeed I Will
sul secondo cd). Certo l'impressione a volte è che David Gray si compiaccia della
sua stessa nostalgia (Forgetting, incompleta
e sfuggente, We Could Fall in Love Again),
eppure pochi reggerebbero con una simile classe la solitudine di When
I Was in Your Heart, chitarre e voci e nulla più, e altrettanti non
avrebbero il coraggio di misurarsi con il proprio stile facendone capolavoro nella
splendida chiusura di Davey Jones' Locker,
impasto morrisoniano (nel senso di Van, l'unico che potrebbe centrare con Gray)
come ai tempi migliori.
Logico pensare che diciannove episodi e un intero
secondo disco siano una richiesta troppo alta da accettare, ma tant'è: non si
chiama "bonus disc" per caso e chiunque di queste canzoni può farne ciò che vuole,
consapevole però che di scarti veri e propri se ne intravedono pochissimi fra
le note di The Dotted Line, A
Million Years (folkie e appasionata), Who's
Singing Now (un'anima irish gospel nel battito delle mani e nelle voci)
e Old Father Time. Una volta tanto l'abbondanza
o l'eccesso compiaciuto di un autore non è per forza sinonimo di stanchezza: diamogli
tempo e magari riuscirà a trovare ancora una sintesi perfetta. (Fabio Cerbone)