Che dire di quel che evoca questo nome leggendario? È
quello di un gruppo che si forma nel ‘39 come Happyland Singers, di cui
faceva parte l’adolescente Clarence Fountain. Il debutto, radiofonico,
risale alla metà dei ‘40; le prime incisioni discografiche arrivano nel
‘48. Divengono poi Five Blind Boys of Alabama, forse anche per
“rivaleggiare” con i Five Blind Boys of Mississippi (che hanno come leader
lo straordinario Archie Brownlee). Vari cambiamenti di formazione, ma
sempre guidati da Fountain, all’alba dei ‘50 i “cinque ragazzi ciechi
dell’Alabama” arrivano alle significative incisioni per la Specialty.
Quando il leader lascia (per tornare nei primi ‘80), il “quartetto” ha
ugualmente modo di confermare il grande ruolo nella pregevole area della
black music che mescola tradizione ed “evoluzione stilistica”, operando
anche una preziosa contaminazione con altri generi.
Una storia importante quella del gospel. Storia a cui, insieme ai loro
“rivali” misssissipiani, contribuiscono Soul Stirrers, Fairfield Four,
Staple Singers, tra gli altri. Tutti artisti che, oltre a segnare il proprio
“genere specifico”, hanno in diverso modo alimentato anche il soul: storia
lunga da raccontare, a partire dagli anni Cinquanta, per espandersi nei
Sessanta e oltre (con un elenco sterminato di riferimenti). Ma anche il
rock e altro. Col nuovo album - copertina disegnata utilizzando l’alfabeto
braille –, gli alabamiani si propongono di rendere omaggio a Paul
Beasley e Benjamin Moore, due dei vecchi componenti recentemente scomparsi,
nonché al grande Jimmy Carter (omonimo del 39° presidente USA…), leader
del gruppo per diversi anni, ritiratosi di recente dalle scene.
Undici i brani. Tra questi The Last Time, standard del “gospel
urbano” che ci riporta anche a Pops Staples: una cover gradevole ma non
particolarmente emozionante, un po’ schematicamente ripetitiva, come qualche
altro passaggio. Più incisiva è l’iniziale Send
It On Down, carica del classico shoutin’ solistico e della
risposta corale, che evidenziano i forti intrecci armonici e ritmici.
Il proposito di darsi da fare fino alla “fine dei giorni” di Work Untill
My Days Are Done, parte dalla pacata, ripetuta affermazione del titolo,
per virare a velocità doppia, quasi frenetica, e sfociare poi nella tranquilla,
meditativa Friendship. A quest’ultima si fanno preferire la più
abrasiva Jesus You’ve Been Good to Me,
con lo shouting solistico, e Keep On Pushin’ (Curtis Matfield),
slow cadenzato. Ma anche Wide River to Cross,
dai colori vagamente country, ha caratteri vocali apprezzabili: c’é sempre
un fiume da attraversare nella cultura afroamericana (e non solo). Un
ritorno deciso a tratti stilistici più aspri è rappresentato da Nothing
But Love, con la voce solista dal bel segno ritmico, nel più classico
stile “call and response”. A concludere, una preghiera quasi recitata,
rivolta a “lassù”, a qualche inedentificabile parte del cielo: l’invocante
ballad Heaven Help Us All, ha sfumature country.
Un buon disco che non rivaleggia con le loro cose migliori, ma appare
più che mai un omaggio sincero alla pluridecennale arte e ai suoi “echi
sudisti”.