Da qualche
anno ormai si sta facendo spazio una generazione di artisti
americani intenzionata a far rivivere, ognuno in maniera
assolutamente personale, la musica Soul/R&B tra gli anni
60 e 70. Mi riferisco, in primis, a musicisti del calibro
di Curtis Harding, Michael Kiwanuka, ma anche ai Black Pumas
e senza dubbio a Leon Bridges. Quest’ultimo ha pubblicato
recentemente quello che, a mio avviso, è il suo album più
interessante e al quale, forse non ha caso, ha voluto dare
il titolo che porta il suo nome: Leon.
Il suo lavoro di esordio, Coming Home del 2015 (entrato
dalla porta principale grazie alla Columbia Records), sembrava
un vecchio album postumo di Otis Redding o Sam Cooke, tanto
forte era il retrogusto vintage col quale aveva voluto
presentarsi al grande pubblico. L’esperimento vincente,
sia a livello di critica (nomina ai Grammy Awards nella
categoria R&B) che commerciale, chiaramente non avrebbe
potuto essere riproposto per un’intera carriera senza rischiare
di finire subito nel dimenticatoio, e nei due dischi successivi
il sound di Bridges si è notevolmente “modernizzato”, senza
abbandonare del tutto un certo stile rétro (a chi volesse
approfondire, consiglio di ascoltarsi le splendide Naomi
del 2018 e Blue Mesas del 2021).
Con Leon, il crooner texano ha deciso di abbandonare ogni
tentazione anche vagamente pop e di rifarsi ai grandi della
musica Soul (Marvin Gaye e Stevie Wonder sono i riferimenti
più immediati che mi vengono in mente), aggiungendo chiaramente
in ogni brano dell’ottima farina dal proprio sacco. Il risultato,
come già anticipato, conferma la bontà della sua scelta
grazie a canzoni che hanno tutto per diventare degli
instant classic. Il lato A, per esempio, ci regala perle
di rara bellezza come la morbida ballata
That’s What I Love e la sensuale e sinuosa Laredo,
impreziosita da chitarre acustiche - alla quale consegnerei
lo scettro di regina dell’album. Ma la raffica di episodi
degni di nota continua senza sosta con la più ritmata Panther
City, che illumina tutto e chiudendo gli occhi riesce
facilmente a trasportarti in una giornata estiva sospesa
nel tempo. Ain’t Got Nothing On
You è un altro gioiellino di dolcezza unica,
proprio come Simplify, nella quale la voce di Leon,
accompagnata principalmente dal piano, rende l’idea delle
sue incredibili potenzialità.
Sul lato B, le percussioni della più movimentata Peaceful
Place spaziano su tutto “l’arco costituzionale” del
suo repertorio ed è un altro ottimo brano che ha le sue
radici piantate nella tradizione R&B. C’è pure spazio per
una riuscita divagazione country folk con Can’t Have
It All, dove una pedal steel guitar disegna soundscapes
da sogno. Il treno torna sui binari usuali con Ghetto
Honeybee e la finale God Loves Everyone (arrangiata
anche con degli archi) che non fanno altro che confermare
che Leon è un grandissimo disco e non credo
potrà deludere chi ama i grandi del passato ai quali Bridges
ha deciso indirettamente di rendere omaggio, senza mai tentare
(va detto) di voler copiare in alcun modo.