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foto: © Chris Eckman/ Glitterhouse
 

Chris Eckman
Last train to Ljubljana, l'intervista

- a cura di Fabio Cerbone -

Ballate dalla natura selvaggia della Slovenia: il nuovo album solista dell'ex voce degli indimenticati Walkabouts è sempre di più il frutto di un legame artistico e sentimentale con la seconda patria europea, quella che lo ha accolto da diversi anni a questa parte. Il cuore resta ancorato al linguaggio folk rock americano di provenienza, ma attraverso le collaborazioni con i musicisti locali Chris Eckman ha sviluppato con maggiore nitidezza una sua espressività artistica, che lo aiuta a distinguersi dai colleghi in madre patria. The Land We Knew the Best è l'ideale completamento, con più luce e meditazione, dell'altrettanto fondamentale When the Spirit Rests. Abbiamo affrontato questo duplice rapporto dell'artista americano in questa intervista, nata in occasione del tour italiano tenutosi nei primi giorni di marzo del 2025.


Fin dal primo sguardo alla copertina di The Land We Knew the Best c’è un riferimento esplicito all’ambiente naturale, a tematiche legate al paesaggio. Dove è nata l’ispirazione per i nuovi brani? C’entra in qualche modo anche ciò che stiamo vivendo in questi anni come umanità? Penso alla questione sempre più urgente del cambiamento climatico e al nostro rapporto con ciò che ci circonda...

Negli ultimi anni si sono unite insieme molte cose che hanno dato vita alle emozioni e alle atmosfere presenti nell'album. Di sicuro le mie passeggiate nelle zone montuose della Slovenia sono un modo per trovare un rifugio e un equilibrio. È un ambiente in cui posso rilassarmi e vivere il momento. Molte delle canzoni fanno riferimento a questo genere di paesaggi perché è lì che spesso prendono vita le canzoni: durante lunghe passeggiate in solitaria. Non riesco a rintracciare un verso specifico per stabilire se una qualsiasi delle canzoni affronti direttamente il cambiamento climatico, ma quando ti trovi immerso nella natura il problema è inevitabile. Nelle montagne slovene, come ovunque oggi, la neve si scioglie prima e ritorna molto più tardi. Questi antichi cicli si sono spezzati e le conseguenze ricadono interamente su di noi.

Credi che tutto abbia creato una distanza con i precedenti album? Ho trovato personalmente un filo rosso che li lega, almeno nel suono. Partenza e finale si dilatano con ballate che mantengono un forte legame con la radice folk. Forse oggi c’è più luce e più speranza rispetto a When the Spirits Rest… cosa ne pensi?

Le nuove canzoni spesso parlano di rimettere insieme i pezzi, di ricostruire, di vedere le cose sotto una nuova luce. Con Where the Spirit Rests c'era una sensazione di essere sopraffatti. Ma non ho più quella stessa sensazione di terrore e quindi le canzoni che ho scritto per questo album lo riflettono. Per gran parte della mia vita da cantautore sono stato piuttosto diffidente nello scrivere testi autobiografici. E lo sono ancora, a dire il vero. Direi soltanto che in questi ultimi due album ho lasciato alcune cose che in passato avrei invece eliminato o censurato. Posso dire onestamente che non mi vedo completamente come l'"io" protagonista in queste canzoni. Le canzoni hanno un sacco di dettagli fittizi e sono narrate da un personaggio o da più personaggi. Qualcuno che non sono io. Ma di sicuro è qualcuno più vicino a me di quanto non lo sia stato in passato.

Hai voglia a questo punto di raccontarmi un po’ come hai conosciuto i vari musicisti che hanno collaborato al disco e come hai immaginato insieme a loro il suono in studio?

Si tratta per lo più di amici che vivono a Lubiana, provenienti dalla scena jazz e sperimentale del luogo. Ho suonato con il contrabbassista Žiga Golob e il batterista Blaž Celarec per più di quindici anni. Ho anche lavorato molto di recente con Jana Beltran, che si occupa dei cori in diverse tracce e suona il piano in Genevieve. Il produttore e chitarrista elettrico Alastair McNeill è un emigrato britannico che vive qui. Suonava con Róisín Murphy. Ha anche prodotto il mio album precedente. L'ho coinvolto anche perché non aveva mai lavorato con la musica d'autore. Ho pensato che avrebbe portato un punto di vista diverso, cosa che ha sicuramente fatto. Ho registrato tutte le mie parti dal vivo. Per le canzoni senza batteria, di solito c’era un altro musicista che suonava accanto a mer, e invece per le tracce con la batteria, eravamo in quattro a suonare insieme: batteria, contrabbasso, chitarra elettrica e io. Alcuni errori sono stati lasciati di proposito. Il sentimento, l'atmosfera e la narrazione erano il focus essenziale.

A proposito di questo, negli anni tu stesso hai svolto anche l’attività di produttore per altri artisti: senti che esiste una differenza nel modo in cui lavori alla produzione di altri dischi rispetto ai tuoi album solisti?

Le due attività sono molto diverse alla fine. Penso che tutto si riduca a una questione di responsabilità. Quando si tratta del mio album, non importa quante persone io coinvolga, è mia responsabilità farlo bene e arrivare in fondo. Devo essere responsabile nei confronti delle mie canzoni. Se finiscono lì a terra, devo abbandonarle oppure insistere affinchè prendamo una direzione diversa. Anche se quando si produce ci sono altrettante responsabilità, in ultima analisi mi rimetto all'artista. Non mi interessa fare l'album al posto di qualcun altro. Il ruolo che mi piace interpretare è quello di un tramite, un collaboratore, un confidente. Qualcuno che tolga un po' di fardelli all'artista in modo che possa concentrarsi sul cuore della faccenda. Cosa significhi in modo specifico, varia molto da progetto a progetto.

Nella parte centrale del nuovo album ci sono due brani, Buttercup e Laments, che sembrano tornare a un suono più elettrico, crudo, qualcosa che mi ha riportato in parte ai Walkabouts. Nel corso degli ultimi anni della tua carriera solista sei sembrato più interessato a una forma di ballata scarna, di impronta acustica. Ha mai pensato di tornare a incidere un disco interamente rock e lo senti ancora un linguaggio che ti appartiene?

In realtà sto proprio pensando di usare soltanto la chitarra elettrica nel mio prossimo album. Quindi, non ho abbandonato il linguaggio del rock and roll. È dentro di me da sempre.

Vivi e lavori da diverso tempo in Slovenia, anche se la tua musica resta legata a un linguaggio musicale che richiama il folk americano. Quanto pensi che l’Europa, la sua gente, la tua nuova terra di adozione abbiano influenzato la tua musica durante questo periodo?

Questa è una bella domanda, ma anche molto difficile da rispondere. Penso che ci siano modi in cui la mia espressione musicale è cambiata da quando vivo qui, ma non so se tutte queste cose possono essere ridotte a categorie come "sloveno" o "europeo". Non sto dicendo che diffido di queste categorie, ma non mi è chiaro dove si incrociano direttamente con la mia musica. Per esempio, so che suonare con musicisti come Blaž Celarac o Žiga Golob, che hanno familiarità con il jazz, mi ha reso più aperto come musicista. Ma questa è una cosa "slovena" o "europea"? Forse sì? So che i miei incontri con musicisti nell'Africa occidentale (per il progetto Dirtmusic, ndr) hanno avuto una grande influenza su di me. Lì ho imparato a fidarmi della drone music, di quei groove fluttuanti, della musica fatta di due accordi o anche di uno solo.

Sei un musicista e anche un produttore che lavora da anni in maniera indipendente e hai conosciuto diversi aspetti di questa professione: dal tuo particolare punto di vista come vedi la situazione oggi per un musicista indipendente? Sia per l’attività dal vivo, sia per la realizzazione dei dischi… ci sono più opportunità o più ostacoli rispetto a una volta?

Penso che tutto si riduca a questo: le opportunità di farsi sentire, almeno teoricamente, sono maggiori ora che in passato, ma la capacità di guadagnarsi da vivere con la musica come artista indipendente è drasticamente calata.

Molto spesso, di fronte al fascino della tua "voce musicale", davanti al tuo stile e al modo in cui si sviluppano i brani, sono andato subito con la mente a giganti della canzone come Leonard Cohen, Johnny Cash, Neil Young. Quali sono i musicisti o anche gli scrittori, i poeti, in generale gli artisti che pensi abbiano lasciato un’impronta maggiore sul tuo songwriting?

Neil Young e Brian Eno e più di recente Lonnie Holley mi hanno insegnato molto su come fare musica. Intendo il processo in sé, non necessariamente il risultato. Patti Smith mi ha insegnato la spregiudicatezza e come il linguaggio del rock'n'roll e quello della letteratura possano intersecarsi. Ali Farka Toure, i Tinariwen e i Velvet Underground mi hanno insegnato qualcosa sullo spazio e sulla bellezza della ripetizione in musica. Townes Van Zandt mi ha insegnato come scrivere una canzone. Nessun altro credo ci si avvicini così tanto. Negli ultimi anni alcuni di questi autori mi hanno dato ispirazione e forza: Annie Ernaux, Han Kang, Jenny Erpenbeck, Teju Cole, Gretel Ehrlich, Joan Didion...