The
Song Is You
Le visioni musicali di John Berger
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a cura di Marco Denti -
John Berger è stato uno degli intellettuali occidentali
più indipendenti, lucidi e indomabili. Si considerava uno
storyteller ma era un artista creativo capace di districarsi
con disinvoltura tra pittura, critica, cinema, fotografia,
narrativa e politica. Geoff Dyer, l’autore di Natura morta
con custodia di sax, spiegava che, con Berger, “il
pensiero si traduce in un atto di lavoro quasi fisico. Ciò
dipende in parte dal rifiuto di separare i due grandi interessi
che hanno dominato la sua e il suo lavoro: l’inesauribile
mistero della grande arte e la vita vissuta degli oppressi”.
Non è stato l’unico a notarlo. Un altro scrittore, Salman
Rushdie, sosteneva che “le sue idee sono state più importanti
dei suoi sogni” e, se nel corso del tempo si sono rivelate
“sacche di resistenza”, è perché viaggiavano attraverso la
limpida realtà del linguaggio, diretto e chiarissimo, tanto
che Colum McCann diceva: “Le sue storie bussavano alla
mia porta. Arrivavano a piedi nudi. Saltavano nei tini di
legno che avevo nella mente. Si trasformavano in vino. Bevevo
e diventavo il loro canto”. Il riferimento alla musica
arriva al momento giusto ed è lo stesso John Berger a confermarlo:
“Sono i potenti a scrivere la storia mentre sono i poveri
senza potere a scrivere le canzoni e io amo la poesia e le
canzoni”. La qualità del repertorio, selezionato dalla
sua onorevole bibliografia, parla da sola.
In Da A a X, un capolavoro già dalla forma epistolare,
Cassandra Wilson canta alla radio When The Sun Goes Down:
“Mi basterebbe vederti quando tramonta il sole. Tutto qui,
vorrei vederti quando tramonta il sole, nient’altro”. Sarebbe
già una soddisfazione, visto che nello stesso romanzo John
Berger precisa: “Le inflizioni attuali si sono spinte oltre.
Non c’è bisogno di evocare un inferno nell’aldilà. L’inferno
per gli esclusi lo stanno costruendo su questa terra, annunciando
la stessa cosa: che solo la ricchezza può dar senso all’esistenza”.
I danni vanno messi in conto e quello va riconosciuto a John
Berger: “Adesso gli edifici in rovina sembrano più piccoli.
In casa la radio era accesa, una cantante. Cesária Évora.
Le case in macerie, invece, erano silenziose. Era come se
il suono della voce di Evora le scansasse meticolosamente”.
Un po’ più avanti, il suo ritratto in Confabulazioni
è stato precisissimo: “Cantava le canzoni dell’Africa occidentale
portoghese in una lingua e con un accento incomprensibili
alla maggior parte delle persone che non fossero originarie
di Capo Verde. Era intransigente, ostinata, incorreggibile.
Il tono della sua voce era quello di un’adolescente che tenta
la fortuna in un bar per marinai prima di tornarsene a casa
a badare alla madre malata”. C’è qualcosa in più, una
distinzione coraggiosa: “I ricchi ascoltano le canzoni;
i poveri ci si aggrappano e le fanno proprie. La vita, diceva
Evora, è fatta di fiele e miele. Lei ci canta le nostre vite
incomprensibili”. Ecco, la differenza.
Cassandra
Wilson, When The Sun Goes Down
Bruce
Springsteen, Shenandoah (Seeger Sessions)
Del
resto, una consistente parte di Confabulazioni è dedicata
all’analisi delle canzoni che “connettono, raccolgono e
riuniscono. Di conseguenza sono punti d’incontro anche quando
non vengono cantate”. Uno degli esempi è Shenandoah,
che la madre gli cantava da piccolo e che John Berger ricorda
così: “Shenandoah era il nome di un capo nativo americano,
e di un fiume, un affluente del Missouri che confluisce nel
Mississippi. Shenandoah finì per essere cantata spesso dai
neri, perché il Missouri separava il Sud schiavista dall’America
del Nord. Anche ai barcaioli e ai marinai piaceva cantarla.
A quei tempi, lungo il corso del fiume Missouri, il traffico
navale era intenso”. C’è una percezione tanto intensa
quanto accurata: “In ogni canzone c’è distanza. La canzone
non è distante, ma la distanza è uno dei suoi ingredienti,
così come la presenza è un ingrediente di qualsiasi immagine
grafica. È stato vero fin dalla prima canzone e dalla prima
immagine. Tutte le canzoni parlano in modo implicito (e spesso
esplicito di viaggi)”. La geografia è quella descritta
dalla poetessa Moya Cannon, tradotta dallo stesso John Berger:
“È sempre stato chi aveva poco altro da trasportare a portare
le canzoni a Babilonia, al Mississippi, alcuni di loro possedevano
meno di niente, non erano padroni nemmeno del proprio corpo,
eppure, tre secoli dopo, i ritmi profondi dell’Africa, stivati
nei loro cuori, nelle loro ossa, trasportano le canzoni del
mondo”. Si chiama blues ed è la dimostrazione che “l’essenza
delle canzoni non è vocale e neppure cerebrale, bensì organica”.
Incredibile, ma vero.importante.
La
prova più concreta arriva dal vivo, con un performance di
Yasmine Amdan, cantante e interprete libanese, a cui John
Berger indirizza un particolarissima recensione: “Sembravi
quasi priva di peso, asciutta, magra, come un’eterna viandante.
Quando hai cominciato a cantare, tutto è cambiato. Tutto il
tuo corpo, non più asciutto, era riempito dal suono, come
una bottiglia può riempirsi fino a traboccarne. Cantavi in
arabo, una lingua che non capisco, e tuttavia accoglievo ogni
canzone come un’esperienza totale, non parziale”. Di nuovo,
l’analisi delle canzoni in Confabulazioni, racconta
che “una canzone, a differenza dei corpi in cui si impossessa,
non è fissa nel tempo e nello spazio. Una canzone racconta
un’esperienza passata. Quando la si canta, riempie il presente.
Le storie fanno la stessa cosa. Le canzoni tuttavia hanno
un’altra dimensione, che è tutta loro. Colmando il presente,
una canzone spera di raggiungere un orecchio in ascolto da
qualche parte in futuro. Si protende in avanti, sempre più
avanti”. Non c’è altra direzione.
L’ha
capito benissimo Isabel Coixet, regista e sceneggiatrice spagnola,
che scriveva: “Un giorno, John Berger ascolta John Coltrane
che suona Everytime We Say Goodbye. Ma il brano non
è la colonna sonora di amori perduti, passioni deluse. È la
musica che ascoltano coloro che sono costretti ad abbandonare
le loro case per via della guerra, della fame, delle persecuzioni.
È la musica che culla i cadaveri di uomini, donne e bambini
che affollato lo stretto di Gibilterra. È la musica che si
ascolta in tutti i campi profughi dell’Africa. La musica che
ascoltò, anni prima che Coltrane nascesse, quel milione di
armeni che fu sterminato dal governo turco. La musica che
non può soffocare il frastuono della guerra che è già cominciata.
È una musica senza fine in un secolo di sparizioni. Gli occhi
azzurri di John Berger, come quelli di un affascinante stregone,
non sembrano chiudersi mai. La musica lo tiene sveglio. E
lui noi”.
Lead
Belly e Bessie Smith vengono richiamati come spettri ingombranti,
poi John Berger ha scoperto la forza di un ritornello
senza parole (che servono fino a un certo punto) con Il
pescatore di Fabrizio De André per le vie di Roma e all’inizio
di Festa di nozze, dopo le danze al suono del
rebetiko, il protagonista canticchia Strange Days dei
Doors. In Modi di vedere evoca Ziggy Marley, quando
canta Justice e dice che “la giustizia continua
a essere una preghiera condensata in una parola” ed è
inevitabile approdare a Woody Guthrie in fondo a Il
taccuino di Bento. Berger lo racconta così: “Il
tema principale di Guthrie fu quel che la Grande depressione
e le siccità della Dust Bowl, la conca di polvere, degli anni
Trenta fecero ai piccoli coltivatori del Texas e dell’Oklahoma
o agli abitanti del Dakota. Come persero le loro case gravate
da ipoteca, come furono costretti a mettersi in strada con
i loro fagotti, a saltare su treni o carri merci, e a raggiungere
in qualche modo la California dove credevano ci fosse lavoro”.
Il profilo è spontaneo: “Guthrie era un artista e un chitarrista
carismatico e un improvvisatore naturale. Cantava vecchie
canzoni e varie nuove canzoni da lui scritte su melodie del
passato. Una di queste si intitola So Long, It’s Been Good
To Know You. Addio, è stato bello conoscerti. Mette queste
parole in bocca alle migliaia di persone che dalla città di
Pampa nella piana occidentale del Texas si sono dovute mettere
in strada durante la Depressione”.
La
ricostruzione è essenziale, d’accordo, ma trovate qualcuno
che, oggi come oggi, abbia il coraggio di appellarsi a Woody
Guthrie, o a Johnny Cash. “Certe volte è difficile trovare
il tempo per dirti cosa significhi per me sei la rosa del
mio cuore” canta in Rose of My Heart e, a dimostrazione
che “le canzoni abbracciano il tempo della storia senza
essere utopiche”, John Berger lo cita senza esitazioni:
“Potevo avvolgermi nel bozzolo caldo di una canzone e andare
ovunque: ero invincibile”.
Johnny
Cash, Rose Of My Heart (American Recordings)
Woody
Guthrie, Dusty Old Dust (So Long It's Been God to Know
You)
Nella
donazione del suo archivio alla British Library nel 2009,
tra una moltitudine di taccuini, quaderni e appunti, c’erano
anche la corrispondenza con Ken Loach, il materiale raccolto
sul postino genialoide Ferdinand Cheval e il suo Palazzo
ideale, il testo di Hey Jude e le note per una
possibile collaborazione con Tom Waits. Per tutta una
serie di ragioni, musicali e non, più che a Tom Waits avrei
pensato a Joe Strummer, ma, suo ammiratore da tempo, John
Berger ha citato Blood Money in Raccontaci anche
le storie, all’inizio di Contro i nuovi tiranni
(una lettura indispensabile, e il titolo dice già
tutto) e Talking at the Same Time (da Bad As Me)
in un saggio intitolato Pezzi d’argento e ha detto
che Waltzing Matilda è tutto nell’insegnare qualcosa
sull’elegia e sulla speranza. Tom Waits e John Berger hanno
molto in comune: il retroterra blues, un modo di guardare,
la cura delle immagini e dei dettagli e un linguaggio articolato
e solido, sempre diretto nonché l’attenzione alle storie delle
persone comuni, lavoratori, emigranti, disadattati, outsider
in genere. In effetti John Berger voleva coinvolgere Tom Waits
nella riduzione cinematografica della trilogia Into Their
Labours dedicata alla cultura contadina che comprende
i romanzi (bellissimi) Le tre vite di Lucie, Una
volta in Europa e Lillà e Bandiera dove cantano
per dimenticare, per ricordare, per festeggiare e per sopravvivere.
Sollecitato, Tom Waits rispose con una lettera scritta a mano.
La collaborazione non è andata in porto perché nel frattempo
John Berger è scomparso, ma arrivati fin qui l’intenzione
è più che sufficiente, perché le idee sono come le canzoni,
non le ferma nessuno.
(I
contributi di Geoff Dyer, Colum McCann e Isabel Coixet sono
tratti da Riga 32 dedicato a John Berger, a cura di
Maria Nadotti, Marcos Y Marcos)
John
Berger, bibliografia (dal blog di BooksHighwway - Books
Special)