Henry
Wise
Stuck inside of Virginia with the Richmond blues again...
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a cura di Fabio Cerbone -
Henry Wise
Holy City [Carbonio
Editore, pp. 352]
By
May the 10th, Richmond had fell/ It's a time I remember, oh
so well
("The Night They Drove Old Dixie Down", The Band)
Una comunità “eterogenea e smarrita” attende Will Seems quando
decide di fare ritorno nella sua Promised Land. Così
è conosciuto il pezzo di terra dove si trova la casa dei suoi
genitori nella quale è cresciuto, nella contea di Euphoria,
Virginia, un nome che suona quasi come una presa in giro,
almeno di non disporre di un grande senso dell’ironia. Basta
guardarsi attorno per capire che c’è poco da essere euforici
“tra frazioni, paesi e incroci stradali, di cui qualcuna,
a un certo punto, doveva essere stata con ogni probabilità
una cittadina, e nulla da vedere nel mezzo, se non un paesaggio
che ondeggiava in cerca di una sorta di equilibrio”.
Will ha cercato una via di fuga per qualche tempo, si è trasferito
nella grande Richmond, la Holy City che ancora
aspetta un riscatto da quando nel 1865 è caduta sotto i colpi
dell’Unione, perdendo il ruolo di capitale della Confederazione.
E in questa diconotmia tra città e campagna, ma anche tra
sensi di colpa e desiderio di espiazione, Will è risucchiato
a Euphoria da una serie di fantasmi che lo inseguono: la madre
morta troppo giovane, il padre scappato apparentemente dalle
sue responsablità, e un vecchio amico nero dei tempi dell’adolescenza,
Sam Hathom, che un giorno di molti anni prima gli ha salvato
la pelle, pagandone le conseguenze sul proprio corpo, con
una vita allo sbando, in balia della tossicondipendenza. Quando
il padre di Sam, Zeke, sarà accusato ingiustamente della morte
di un altro giovane uomo nero della contea di Euphoria, Tom
Janders, Will, nel frattempo assunto come vicesceriffo della
cittadina, sarà costretto a fare i conti con tutti i nodi
irrisolti che lo avevano allontanato da quel luogo per cercare
l’oblio a Richmond.
Scegliendo le regole di genere della crime fiction e al tempo
stesso piegandole al ritmo di una storia che vuole raccontare
qualcosa di più profondo e incistato nella cultura contraddittoria
del Sud, lì dove “non c’era alcun futuro, solo l’immutabilità
di ciò che era già stato, e dove non si era mai se stessi
ma sempre il figlio o la figlia dei propri genitori, il discendente
degli schiavi o dei padroni”, Henry Wise ci trascina
in una vicenda più complessa di un semplice omicidio. Perché
a Euphoria nessuno è davvero innocente, come a un certo punto
dichiarerà Bennico Watts, l’investigatrice (e donna nera,
non un dettaglio qualunque) chiamata dalle madri e mogli nere
del posto (Claudette, madre di Tom Janders, e Floressa, moglie
di Zeke Hathom) a districare un caso che lo sceriffo della
contea, Jeff Mills, vorrebbe chiudere in poche semplici battute,
convinto, per il quieto vivere e per salvare la sua rielezione,
che Zeke Hathom sia il colpevole. Will sarà costretto suo
malgrado a collaborare, in una serie di attriti crescenti,
con la stessa Bennico, soprattutto perché lo deve al suo amico
Sam e perché a un certo punto “devi chiederti se vuoi risolvere
davvero un problema o se hai imparato a usarlo come scusa”.
Fra campi di tabacco e cotone, serpenti testa di rame che
attraversano le strade, zone depresse che prendono nomi sinistri
come Snakefoot Swamp, stazioni di servizio con insegne
della Gulf o della Sunoco mezze abbandonate, superstizioni
mai sopite e soltanto le voci dei predicatori religiosi che
escono dai programmi alla radio, Holy City descrive
una geografia naturale che diventa anche, soprattutto, una
geografia umana, lì dove “pareva che la gente del luogo
vivesse nell’ombra della sconfitta, autoinflitta ed ereditata”
e dove il presunto sogno americano “devi prendertelo con
la forza, come una casa che non è tua”.
Attraverso una lingua diretta e una serie di capitoli brevi
che intrecciano le vicendevoli colpe, i sotterfugi, le verità
nascoste che ognuno dei protagonisti, Will Seems per primo,
nasconde a se stesso e agli altri, Henry Wise sembra inseguire
un tracciato simile ad altri interessanti e giovani autori
della letteratura americana (viene in mente in particolare
il David Joy di Quelli
che pensavamo di conoscere e Queste
montagne bruciano, entrambi Jimenez), restituendo con
realismo ma anche, sotto traccia, con un’atmosfera introspettiva
quello che ancora oggi divide bianco e nero, sopra e sotto,
metropoli e provincia all'interno della società americana
del sud.
Quando hai capito per la prima volta
che avresti voluto diventare uno scrittore?
Quando ero al quarto anno, alle superiori. Mio padre mi regalò
per Natale un racconto di Faulkner, The Bear. Non avevo
intenzione di leggerlo, ma il giorno seguente ero malato e
ho preso in mano il libro solo come scusa per potergli dire
che l’avevo iniziato. Faulkner mi ha insegnato che il linguaggio
può essere il fine, non soltanto il mezzo. Può essere la lente
attraverso la quale l’autore dà forma al mondo che il lettore
avrà modo di sperimentare.
Qual è stato il momento più difficile
nello scrivere Holy City? Oppure quale è stata la scena
più impegnativa da scrivere e come sei riuscito a superarla?
Probabilmente ti risponderei che il finale è stata la parte
più complicata da scrivere. Ma ci sono stati altri passaggi,
come il momento dell’aggressione, quando il personaggio di
Sam viene ferito, anche quello è stato impegnativo. Richard
Ford una volta mi ha detto: “Scrivi di ciò che è più importante
per te, perché è quello che ti sosterrà”. Ho preso questa
cosa a cuore quando mi sono ritrovato in difficoltà nello
scrivere Holy City.
Le descrizioni delle cittadine e degli
ambienti naturali sembrano giocare un ruolo importante nell’influenzare
gli stessi personaggi del romanzo. Abbiamo trovato similitudini
con altri interessanti giovani autori del Sud americano, tra
cui David
Joy o Jordan
Farmer. Li conosci e più in generale quali sono gli autori
o le letture che ti hanno formato per arrivare all’esordio
letterario di Holy City?
Ho letto David Joy e lo incontrerò personalmente per la prima
volta durante una presentazione letteraria la prossima primavera,
mentre non conosco Jordan Farmer. Per il resto, oltre a Faulkner
e al racconto The Bear che ho citato prima, sono stato
influenzato da una grande varietà di autori, e molti di loro
sono scomparsi da tempo. Potrei fare un lungo elenco di nomi,
ma alcuni autori del sud sarebbero Mark Twain, Charles Portis,
Cormac McCarthy, Willa Cather, Zora Neale Hurston, Richard
Wright, Flannery O’Connor, Larry Brown.
A proposito di sud degli States: nel
corso degli ultimi anni al centro del dibattitto americano
sono emersi argomenti come il razzismo della polizia, i vecchi
simboli della Confederazione, una messa in discussione generale
dei ruoli fra popolazione bianca e nera. Anche Holy City
è attraversato da queste ombre, come evidenziano gli stessi
personaggi di Will e Sam. Molte persone hanno manifestato
difficoltà ad affrontare queste discussioni, anche nella scelta
del linguaggio. Come ti poni di fronte a tutto ciò come scrittore?
Senti in qualche modo delle pressioni?
Cerco di non prestare troppa attenzione alle aspettative esterne
nei confronti della mia scrittura. Credo sia importante farsi
da parte rispetto alle discussioni del presente – non necessariamente
ignorarle, ma prendere una certa distanza da queste ultime
– quando stai creando qualcosa di artistico. L’arte deve arrivare
da un luogo più profondo, un regno di intimità che sia abbastanza
tranquillo e sicuro da resistere a capricci e tendenze del
momento, uno spazio privato che nessuno può toccare mentre
lo stai realizzando. In fin dei conti, non sono nemmeno sicuro
che un artista abbia molta scelta su cosa lui o lei finirà
per realizzare.
Nel
libro fai riferimento al fenomeno della gentrification, soprattutto
in relazione alla capitale Richmond. C’è questo costante attrito
fra campagna e città, anche negli stessi personaggi: quanto
credi che questi fenomeni abbiano influenzato anche le divisioni
politiche che hanno vissuto gli Stati Uniti in questi ultimi
anni, fino alla recente rielezione di Donald Trump?
Sono sicuro che si possono fare diverse generalizzazioni sull’argomento,
su come il voto americano si è diviso tra la gente che vive
nelle aree urbane e chi invece nelle zone rurali, ma conosco
anche così tante eccezioni che alla fine non sono davvero
in grado di dare una risposta definitiva a questa domanda.
Qui a RootsHighway spesso siamo soliti
mettere a confronto certa narrativa americana che proviene
dalla provincia rurale e alcuni suoni della stessa musica
americana. Vista l’ambientazione di Holy City ci siamo
quindi subito immaginati una colonna sonora che potesse accompagnare
la storia. Dal tuo punto di vista la musica ha un’influenza
sulla tua scrittura? Hai ascoltato qualcosa in particolare
che ha finito per influenzare le descrizioni di Holy City?
Non ascolto generalmente musica che possa influenzare direttamente
la mia scrittura, ma non ho il minimo dubbio che ascoltare
il talento di un musicista possa ispirare anche la mia creatività.
Alcuni artisti che ascolto regolarmente sono Howlin’ Wolf,
John Lee Hooker, RL Burnside, Elvis, Thelonious Monk, Jimmie
Rodgers, Hank Williams Sr., Beatles, Zombies, Kinks e i Nirvana.
Puoi condividere un momento della tua
vita personale che ha ispirato una scena o un personaggio
di Holy City?
Il mio primo lavoro è stato in un'azienda di costruzioni di
Richmond che si occupava di isolanti, e tutti quelli che ho
incontrato lì erano personaggi degni di apparire in un romanzo.
Potrei scrivere un libro soltanto basato su quell'esperienza,
e forse lo farò.
Se non avessi fatto la scelta della
scrittura, cosa faresti nella vita?
Se potessi viaggiare nel tempo, sarei un attore di cinema
muto. Altrimenti, probabilmente sarei un batterista in una
band.