Non deve essere stato affatto
semplice per Durand Jones, da Hillaryville in Louisiana, arrivare
a questo album di debutto e decidere di mettere sotto i riflettori la
propria omosessualità. Un musicista gay nel sud degli Stati Uniti, per
di più nero, al di là di tutti i discorsi di circostanza, è uno certamente
destinato a dover far fronte a parecchi problemi. Del resto, dopo una
lunga carriera vissuta come frontman del gruppo soul Durand
Jones & The Indications, era del tutto evidente che l’urgenza
di dare alle stampe il suo progetto solista, in cantiere da quasi un decennio,
nascesse dall’esigenza di imprimere una svolta al suo percorso artistico
ma anche, e soprattutto, dalla sempre più pressante voglia di mettersi
in gioco in prima persona, di mostrarsi “nudo” al cospetto dei propri
fan.
Il singolo That Feeling (con video
annesso) che ha accompagnato la presentazione di questo esordio, racconta
proprio del suo amore verso un altro uomo e diventa così il manifesto
del disco e il documento principe del suo coming out. E in questo
senso anche la stessa copertina dell’album, che potrebbe far storcere
il naso a qualcuno, è molto significativa. C’è Durand che illustra un
personale concetto di “eleganza contadina” e che sembra dire, in maniera
molto cruda, “questo sono io, sarò eccessivo, improbabile, inopportuno,
forse sguaiato ma, vi piaccia o no, sono io”. Venendo alle canzoni, che
sono poi la parte che più ci interessa, non pare ci sia nulla di davvero
nuovo sotto il sole. I temi trattati, andando a scavare nei ricordi dell’autore
e nei territori della sua infanzia, sono, come già accennato, il vero
elemento identitario e personalizzante, il resto è un po' il riepilogo
delle linee guida che da sempre ispirano la produzione musicale di Durand.
È tutto, ad ampio spettro, perfettamente conforme ai dettami del soul
e del rhythm & blues, la voce è magnificamente idonea al genere, stilosa
e rutilante quanto basta a non sporgersi oltre l’ampio recinto dei classici
della black music. Ci prova, in verità, a mischiare un po' le carte ma
non riesce proprio a lasciare sullo sfondo i numi tutelari. Brani come
See It Through o Someday We’ll All Be, per esempio, propongono
timidamente qualche novità ma Stevie Wonder fa buona guardia, facendo
probabilmente passare come fuori luogo l’ospitata di Skypp, involontariamente
soffocato dal registro di Durand e da una massiccia sessione di archi.
Qualcosa di particolare, al limite, la si rintraccia in episodi ben riusciti
come Letter to My 17 Year Old Self
dal gusto più cantautorale e dagli arrangiamenti più ricercati, la conclusiva
Secrets che propone quasi due minuti di flutti marini per darci
l’arrivederci o, cambiando totalmente atmosfere, come Lord
Have Mercy (altro singolo) che, sarà anche banale, ma riesce
a rompere gli schemi, ad alzare piacevolmente i decibel ed a dare un senso
compiuto al lavoro, non sempre sufficientemente sobrio, svolto in cabina
di regia.
“Qui non c’è spazio per i non credenti”, così chiosano le note stampa
che accompagnano l’album e crediamo che non ci sia nulla di più vero,
laddove per “credenti” siano indicati gli aficionados e gli amanti del
genere. Per gli altri, Wait Til I Get Over, che tutto è
tranne che un disco non riuscito, può essere un buon modo per prendere
confidenza con l’ambiente o semplicemente un buon diversivo, nella consapevolezza
ovviamente che per approfondire l’argomento sarà cosa buona e giusta passare
in tempi rapidi agli originali.