Ricordo ancora Andy J.
e la primavera di tanti anni fa, che lo notai in tv quando ancora poteva
accadere di ascoltare blues alla televisione. Ospite ad “Help” di Red
Ronnie, neppure mi sarei mai aspettato di ritrovarlo il giorno dopo a
Pavia, quando lessi che all’Università avrebbe presentato il libro con
lo stesso titolo del disco, da riproporre quella sera al leggendario Spaziomusica
della città e cioè Letter From Hell, 1999. Non so quanto gli faccia
onore, ma il fatto che quel pomeriggio alla presentazione ci fossi solo
io, potrebbe dirla lunga sull’interesse per il blues a queste latitudini.
Certo è che un po’ iniziatico fu anche quell’incontro dove, più che del
libro, la signora che lo accompagnava lo incalzava a propormi qualche
“trucco” all’armonica; lui che, giacca a spalle larghe e cappello sulle
ventitré, ascoltai con piacere al raccontar di geniale affabulatore, istrionico
mattatore delle scene e polistrumentista della Louisiana scappato di casa,
che non vidi la sera in quello storico tempio musicale pavese (che oggi
non c’è più) ma là, mi sarei fatto senz’altro un’idea: che anche il blues,
di affezionati ce ne aveva pure da queste parti (che forse appaiono solo
di notte e soprattutto a Spazio); e che Daniela Bonanni, che accompagnava
Andy ed è tuttora e sempre dove c’è buona musica, fosse altresì promotrice
di quel locale. E se a fare un locale sono anche i musicisti che ci suonano,
Andy aveva già dalla sua quel che è storia, e una squadra di cui qualcuno
è anche in quest’ultimo lavoro: un Modern Vintage Blues, dal sottotitolo
che più si addice al personaggio.
Assieme, un imprinting musicale italo-americano come quel suo parlato
trascinante e strascicato, aneddotico come i suoi testi, che qui neppure
sfuggono alla sua affabulazione. Persino nel manifesto I
Don’t Wanna Work, che è pure una didascalia ai suoi quarant’anni
di musica, tra l’America e l’Italia: dalla nostra, col fedelissimo Heggy
Vezzano alla chitarra e poi con Roberto Luti, che di converso ha per sé
una storia simile, tra l’Italia e l’America. In mezzo, New Orleans che
di un certo mélange ne è la capitale, e più di una dozzina di musicisti
che innervano di “groove” cose come Determination,
in apertura: incedere ferroviario in cui dalla slide di Luti mi sovviene
più che mai un omaggio alla gallagheriana Race The Breeze (Rory
Gallagher, Blueprint, 1973 ed è forse la prima volta che mi succede);
gentilissima, come l’aria fresca una sera d’estate è poi Startin’ All
Over, una ballad che si spegne con le luci della sera. Non è invece
l’allegra Frady’s One Stop Store che troviamo quinta come da track-list,
ma gli umori uggiosi di High Times Low Life, segnata come settima.
In mezzo, i cenni in levare di Get Along e Voodoo
Lips, coi fiati la più New Orleans del lotto; prima che Piety
Street Strut ci saluti invece un’altra volta, come quella volta: -
“Ciao Theo, auguri e good luck”! Ciao Andy, alla prossima.