Koko
Taylor What
It Takes - The Chess Years
[Geffen/ Universal 2009]
Figura imprescindibile nel traghettare l'arte delle prime blues women
dalla tradizione verso l'elettricità dilagante della Chicago degli anni
sessanta, Koko Taylor è stata più volte insignita del titolo di
"queen of the blues", non solo dalle parti della windy city.
Titolo quanto mai meritato (seppure la farei personalmente gareggiare
con Big Mama Thorton) per le sue devastanti doti vocali, un ringhio potente
che distanccandosi sia dalla lezione propriamente gospel sia da quella
soul che sarebbe seguita, la avvicinava piuttosto ai suoi contemporanei
colleghi maschi, tra l'ululare di Howlin' Wolf e lo strepitare di Muddy
Waters. What It Takes, mutuato dal primo fortunato singolo
(I Got What It Takes) del 1964, riprende
una vecchia antologia Chess e la riporta a nuova vita in una preziosa
confezione deluxe con l'aggiunta di sei tracce inedite e una bella veste
grafica cartonata (comprensiva di libretto con note esaustive sulle session
e i musicisti coinvolti).
Cora Taylor, in arte Koko per via della sua passione smodata per il cioccolato
(così narra la leggenda), muove alla volta di Chicago dalla sua natia
Memphis all'alba degli anni cinquanta e qui comincia far sentire il suo
shout primordiale nei club cittadini. Le sue eroine si chiamano Ma Raney,
Bessie Smith, Memphis Minnie, il suo credo è quello di un blues che metta
insieme la vita dura trascorsa senza la madre (morta giovanissima) e il
lavoro nei campi con il padre e la sorella. C'è però una vivacità dirompente
nella sua voce che la conduce verso le luci della città, il nuovo sound
e quella che al tempo è la culla della rivoluzione blues, la Chess records.
Da quel periodo vegono estratte queste ventiquattro tracce, che coprono
otto anni dal 1964 (debutto tardivo dopo una gavetta fatta di lavori giornalieri
e serate al seguito del marito) al 1972. Koko Taylor farà le valige dalla
Chess ormai in declino a metà degli anni '70, con un contratto fiammante
per la Alligator e una seconda parte di carriera densa di soddisfazioni
personali e di notevoli successi, anche a livello internazionale.
Tuttavia il cuore più appasionato della sua produzione è racchiuso proprio
in queste incisioni, che raccolgono la sua unica grande hit del tempo:
una Wang Dang Doodle, già nel repertorio
di Howlin' Wolf, che sarà anche l'ultimo exploit discografico di un certo
rilievo per la Chess nelle classifiche di settore. Il resto non sfigura
e non è affatto contorno, a cominciare dalla vibrante I Got What It
Takes e passando attarverso i cambi di umore, dall'acceso blues di
I'm Little Mixed Up alle fattezze r&b di Don't
Mess With the Messer, della scherzosa What
Came First The Egg or the Hen
e dell'esplosiva Fire, palestra per
la vocalità esuberante di Koko e tentativo palese di seguire l'onda nuova
del soul di casa Stax che in quegli anni si imponeva a gran voce. Tutta
la prima parte della scaletta è dominata dalla firma di Willie Dixon:
è lui, il grande bassista e indiscusso principe degli autori alla Chess,
il mentore della Taylor, che la accompagna (anche in duetti) e appronta
la stellare band in studio. Non ci sono comparse: dalle chitarre di Buddy
Guy e Matt Murphy all'armonica di Walter Horton si stabilisce
un forte legame con la crema del coevo Chicago blues, fino a sancire questo
affetto nel duetto di I Got What It Takes
proposto dal vivo con Muddy Waters in persona (dal festival di Montreaux
del 1972). Si tratta anche del brano che chiude la tracklist originale
dell'antologia, come anticipato allargata da una selezione di sei brani
di forte impronta southern soul (Blues haven
e Good Advice di JB Lenoir le più
curiose, insieme alla fremente Separate or Integrate).
Una doverosa ricostruzione degli esaltanti e fondamentali inizi di carriera
di un'artista che ci ha purtroppo lasciato pochi mesi fa, celebrata con
una sentita cerimonia funebre tenutasi proprio nella sua Chicago. (Fabio Cerbone)