Questa grande artista - nata Betty Haskin a Muskegon, Michigan,
nel 1946 -, ha una carriera che, con qualche similitudine espressiva e
di longevità con Mavis Staples, regge splendidamente il passare del tempo:
l’hanno mostrato i suoi album degli ultimi anni, pur con qualche forzatura
qua e là, “istigata” da arrangiamenti spigolosi. Un breve ripasso biografico
ci riporta agli esordi dei primi Sessanta, con segni di classe interpretativa
che passano dal discreto hit r&b, My Man - He’s a Lovin’ Man (’62),
e dal graffiante Let Me Down Easy di tre anni dopo. Forte di personale
abrasività vocale e di forte presenza scenica, Bettye LaVette si
è fatta man mano rispettare, mostrando qualità anche comunicative rilevanti,
pur senza ottenere il successo di altri contemporanei.
Da diversi anni ha comunque allargato l’arco degli estimatori, anche fuori
dall’ambito strettamente black, affrontando repertori di vario genere;
non ultimo Things
Have Changed (2018) dove si misurava con le scritture di Dylan, con
buoni risultati. Ora ritorna in gran forma - energia che sprizza anche
dalla bella, dinamica foto di copertina -, con l’aiuto di un produttore
e boss dell’etichetta quale Steve Jordan (il richiamo è alla storica Vee
Jay?), e col supporto di ottimi musicisti di session quali Larry Campbell
e Chris Bruce (chitarre), Pino Palladino (basso), Leon Pendarvis (tastiere).
Qualche ospite di rilievo in solchi diversi: Stevie Winwood, Ray Parker
Jr, John Mayer e il Rev. C. Hodges. Il repertorio è affidato alle composizioni
del multistrumentista e autore Randall Bramblett (ultrasettantenne
georgiano, USA), di vasta esperienza e collaborazione in ambiti stilistici
diversi (tra cui Sea Level, Allman Brothers e Traffic), anche di “ispirazione
black”. Di lui Bettye ne esprime la stima e, a giudicare dai risultati,
con ragione.
Si parte con un paio di brani di buona struttura, tra cui Don’t
Get Me Started, mid-tempo che si avvale anche dell’apporto
di Winwood. Già qualche brivido soul solletica udito e feeling. Ma il
tutto comincia veramente a graffiare – voce inconfondibile, o comunque,
come detto, dalle coloriture affini a quelle della grandissima Staples
-, con Lazy (And I Know It), slow
che sa di blues con sfumature reggae che ne mettono in bella evidenza
i colori vocali. E – dopo aver assegnato un “niente male” ad un paio di
brani quali il mid-tempo Sooner or Later e il “country-soul” In
the Meantime -, il resto dell’album si propone con livelli interpretativi
degni delle sue più belle performance: accattivante, comunicativa, sensuale,
graffiante fino ad essere “provocatoria”.
Plan B ha una solida struttura r&b
e un testo fortemente auto-affermativo (“...posso sembrare folle, ma non
ho un piano B...”), ed è il primo singolo ricavato dall’album.. A seguire,
il delicato Concrete Mind, slow melodico-meditativo,
quasi “recitato”: uno dei gioielli dell’album, insieme al country-soul
I’m Not Gonna Waste My Love, con un passo lieve di stampo wee wee
hours di carattere intimo-confidenziale. Mess About it è un funky
- che sarebbe sarebbe piaciuto a James Brown e suoi “seguaci” -, dai tratti
ritmici pungenti, che ben si riversano nel più “frenetico” Hard to
Be a Human. Intimità blues-soul nel successivo I’m Not Gonna Waste
My Love, dichiarazione sottolineata da coloriture quasi hawaiane della
chitarra e canto fortemente espressivo. Chiusura in grande spolvero (così
si dice e suona divertente...). Con i suoi 6’55”, It’s
Alright è il più lungo dei brani e potrebbe durare il doppio
per l’ispirazione che offre: un’irresistibile miscela slow di soul e gospel,
con qualche sussurro, sfumature chitarristiche country e un soffice e
accattivante coro. Un gioiellino quest’ultimo, che guadagna alla grande
artista il punto esclamativo.