La
provincia americana è sempre stata prodiga di musica, movimenti, fenomeni internazionali,
da Lubbock a Tupelo, da Indianola a Duluth. Seattle è una città di provincia,
piovosa e grigia, ma quando si parla di musica non è seconda a nessuno. Dal protopunk
dei Sonics, al maestro della Stratocaster, Jimi Hendrix, dal grunge dei Nirvana
al rock venato di 70s dei Band of Horses. Anche i Lonesome Shack arrivano
da Seattle, e si tratta di un trio formato da Ben Todd (originario però del New
Mexico) chitarra e voce, Kristian Garrard alla batteria e Luke Bergman al basso.
I primi due dischi sono stati registrati come duo mentre Bergman è entrato a far
parte del combo nel 2011. The Switcher è il quinto capitolo della
saga, fatta di blues primitivo, boogie, ritmi ossessivi e tribali. E' proprio
questo il filo conduttore di tutto il disco, un blues duro, ipnotico a metà fra
John Lee Hooker e Otis Taylor, con qualche sprazzo più godereccio alla RL Burnside
e vaghi richiami ai Canned Heat e al blues africano di Otha Turner. Un disco (e
un genere, verrebbe da dire) tenuto insieme dal groove, dal ritmo martellante
che, quasi si trattasse proprio di musica primitiva, è elemento fondante ancor
prima della melodia. Quattordici tracce in tutto, sound molto compatto, nessuno
spazio a virtuosismi, altri strumenti oltre quelli suonati dai tre, nessuna postproduzione.
Diretto e schietto, note suonate con la grazia di una palata. Boogie paludosi
come To the Floor, Chemicals, Sugar Farm o Mind Regulator
(con forti richiami a Boogie Chillen) e The Switcher si intrecciano con
trance nere come Diamond Man, True Vine, Mushin Dog, o si alternano
a pezzi più oscuri, dall'incedere strisciante come Dirty Traveller, Stuff
from a Cup, Blood, che a volte però si ripetono in modo piuttosto piatto.
Unica cover e pezzo fuori dal coro è Safety zone, un rock anni '50 che
da un po' di movimento al disco. L'ultimo album della band seattlesiana (se si
dice così...) alla lunga può stancare, ma preso a piccole dosi ha dei bei momenti
che meritano un ascolto. Canzoni da distillare come un braulio, che a piccoli
sorsi va bene, ma tutto d'un fiato può risultare ostico.
Left
Lane Cruiser Beck in
Black [Alive/
Audioglobe 2016]
Beck
In Black è una raccolta tratta dai primi albums della band per la Alive
(in tutto sei) a partire dal 2008. Originari di Fort Wayne, Indiana, i Left
Lane Cruisers sono la creatura di Freddy J IV (Joe Evans), voce e chitarra
slide, affiancato da Pete Dio alla batteria che ha sostituito Brenn Beck (anche
armonica e percussioni). Curiosamente i brani di questa raccolta, inizialmente
pubblicata su vinile per il Record Store Day ed ora in cd con l'aggiunta di sei
brani inediti, sono stati scelti dall'ex batterista, rimasto in ottimi rapporti
con Freddy. La musica del duo, recentemente diventato un trio con l'inserimento
di un bassista, è stata influenzata dal Mississippi Blues degli artisti della
Fat Possum, un blues aspro e aggressivo contaminato dal garage rock e dal punk,
con l'aggiunta di un pizzico di hard rock. Hanno punti di contatto con Black Keys,
White Stripes, Seasick Steve, ma si caratterizzano per la voce aspra e rauca di
Freddy, che alla lunga è troppo monocorde e rende difficile e pesante l'ascolto.
Questo è un limite da non trascurare, che incide sul giudizio di un gruppo non
privo di spunti interessanti. Beck In Black ha un'apertura brillante con l'inedita
cover di The Pusher, il brano di Hoyt Axton celebre nella versione degli
Steppenwolf del '68, inserito nella colonna sonora di Easy Rider. La lettura del
duo è rallentata, cadenzata, con una slide accattivante che si contrappone all'asprezza
della voce un po' indolente. Il boogie alla John Lee Hooker di Circus,
l'elettroacustica ruspante G Bob e il ruvido hard rock di Bloodhound
con un riuscito assolo distorto di slide mantengono alto l'interesse, ma a partire
dalla monocorde Zombie, in parte riscattata da un'armonica abrasiva, inizia
a manifestarsi un affaticamento dovuto alla voce sforzata e arcigna. Il rock blues
di Chevrolet, la lenta Sausage, caratterizzata dai fraseggi della
slide, Hip Hop ammorbidita dalle tastiere di James Leg e l'accattivante
Maybe, cantata in modo più naturale, non sono da buttare, ma quando si
arriva all'ultima traccia, l'inedita versione strumentale di Juice To Get Loose,
si apprezza l'assenza della voce e si sente il bisogno di una pausa rigenerante.