Ha fatto parlare
molto di sé, questo bluesman sconosciuto che nel 2002 se n'è uscito
con due pubblicazioni concepite come un tutt'uno. Ha fatto quasi
gridare "al miracolo", per quel pugno di brani taglienti come
una lama, fulmini a ciel sereno in un panorama, quello della musica
blues, in cui spesso la storia riscrive all'infinito se stessa,
a volte sfociando nella piattezza se non nell'autoindulgenza.
Pochissimi avevano sentito parlare di Otis Taylor, che,
sempre nel corso del fatidico '02, si è guadagnato un bel pugno
di nominations, inclusi quelli per la miglior canzone, la splendida
My Soul's In Louisiana che apre White
African e per il "miglior nuovo artista dell'anno".
Ma "nuovo artista" Taylor non lo è affatto. Nato nel 1948 a Chicago,
si è spostato a Denver, Colorado, all'età di sei anni. Gli fa
compagnia in quei giorni un ukulele, presto sostituito da un banjo
quando inizia ad interessarsi di musica. Intorno al 1964 forma
la sua prima band, Butterscotch Fire Department Blues Band,
che presto si evolve nella Otis Taylor Blues Band (nella
quale milita il chitarrista Bruce Kubick). Alla fine del decennio
approda a Londra, città di cui apprezza oltremodo la scena musicale
e dove si guadagna un contratto con la Blue Horizon. Ben presto,
deluso dai risultati, torna negli States, dove suona, tra gli
altri, con T&O Short Line (insieme a Tommy Bolin) e i 4-Nikators
and Zephir. Nel 1977 rinuncia alla scena musicale. Vi farà
ritorno dieci anni più tardi, incoraggiato dal bassista Kenny
Passarelli, già alla corte di Elton John e nei Barnstorm di
Joe Walsh. Durante un concerto all'Hill di Boulder, Colorado,
Otis viene affiancato da Passarelli e dal chitarrista Eddie
Turner. E' l'atto ufficiale di un rientro che guiderà anche
alla realizzazione di due dischi, Blue
Eyed Monster e When
Negroes Walked The Earth del 1998. La storia cambia
con la firma per la Northern Blues, etichetta per la quale
Taylor porta a compimento il già menzionato White African
e Respect The Dead.
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Il
suo è un blues senza sconti, impietoso, le sue storie parlano
della vicenda dei neri, non "vissuta" (per sua stessa, ovvia ammissione),
ma narrata in maniera nuda e cruda. Le sue canzoni parlano di
vagabondi di colore ingiustamente accusati e "Con nessuna speranza
di cavarsela" (My Soul's In Louisiana), sofferenza (Resurrection
Blues), linciaggi (Saint Martha Blues), gente senza
terra né casa (Hungry People), schiavismo e schiavitù in
una terra che non ha mai cancellato del tutto i suoi madornali
errori (Ten Million Slaves), uomini "Che non possono pagare
le cure mediche per il proprio figlio morente (3 Days And 3
Nights), di diritti civili, per citare la storia raccontata
in 32nd Time (da Respect The Dead), in cui "Durante gli
anni sessanta, militanti bianche scendevano dagli stati del Nord
per supportare le battaglie della gente di colore". La profonda
tristezza, i toni cupi di Taylor colpiscono, convincono, vincono
il sempre "latente sospetto" di volere far leva su emozioni ancestrali,
di voler celebrare per l'ennesima volta il connubio blues-sofferenza",
in innumerevoli occasioni usato come pretesto. Non c'è spazio
per nessuna prosopopea, per "good times, lonely girls & dancing
shoes", solo per la desolante, dolorosa realtà, per la Storia
"portata in scena" senza l'inutile pretesa di averla filmata in
prima persona, non disdegnando il forte utilizzo di elementi evocativi.
Un treno che corre nella notte, un bimbo che piange, chiazze in
bianco e nero che sposano a perfezione la scarna trama musicale
(opera di Taylor stesso, di Kenny Passarelli e di Eddie Taylor),
monocorde, essenziale, in cui i silenzi e le pause hanno lo stesso
peso delle note arcigne e notturne e sulla quale poggia in maniera
ideale una meravigliosa, ruvida voce quasi "fuori campo". Parte
indispensabile di una storia come questa, capace di smontare le
barriere costruite dal tempo
(Roberto Giuli)
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