Last Of The Rock'n'Roll Star (a cura di Marco Denti)
La
sua caricatura l'ha inseguito per tutta la vita e non era facile distinguere
il personaggio dall'uomo. Forse non era nemmeno necessario. Viveva in
un mondo tutto suo, sempre eccessivo, tranchant, con un confine netto,
invalicabile con la realtà. Al di là dei costumi, e degli usi, sembrava
uno sempre sul punto di partenza e, d'accordo che ha passato tre quarti
della vita in tour, ma aveva sempre qualcosa di instabile, di irregolare,
di inarrivabile. Non è una coincidenza che le due città che più ha amato
(New York, New Orleans) siano dei porti, delle porte verso l'Europa,
già perché la cité dove avrebbe voluto vivere era Parigi. Non
quella di oggi con tutte le contraddizioni del ventunesimo secolo, dalle
architetture affilate alle banlieue fuori controllo. No, la Ville Lumière
di Edith Piaf, l'incanto di notti infinite senza una risposta, maybe
tomorrow. Quello era il suo posto, e poi New York, New Orleans. Negli
altri luoghi, negli altri tempi Willy De Ville si mimetizzava
interpretando le mutevoli forme di uno spirito indomito: il latifondista
della frontiera quando si è trasferito sul Mississippi (in effetti poteva
stare benissimo in un romanzo di Mark Twain), il nativo tra le strade
polverose del New Mexico, il crooner in una nuvola di fumo sui palchi
di mezzo mondo, nei suoi ultimi anni. Evanescente, inafferrabile, l'ultimo
principe del rock'n'roll. Imprigionarlo in un libro, incastrare un grande
soulman (è stato anche quello) tra le pagine di qualcosa che non suona,
era un'impresa degna di uno scrittore nei suoi peggiori desperate days.
O di qualcuno che quel mood, quei sapori, quelle città, li ha conosciuti
bene ritrovandoci tutta l'eccentrica geografia dell'anima di Willy DeVille.
Zambo alias Mauro Zambellini non ha dovuto studiare per districarsi
tra le vie del Lower East Side e non si è spaventato a vedere l'alba
nei vicoli del Quartiere Latino perché la sua particolare bussola si
è lasciata orientare dall'unica, vera eredità di Willy DeVille, la musica
ovvero i dischi.
Basterebbero le copertine (a parte quella di Sportin' Life, in
linea con il suo modesto contenuto) per rimanere invischiati nella sua
storia e se non vi succede è perché non volete sporcarvi il cuore, o
l'avete dato in prestito a qualcuno. La cifra (si legga: il totale)
della passione e della predisposizione di Zambo verso Willy DeVille
si legge nelle appendice quando, nel paragrafo "discografia necessaria"
sono elencati tutti i dischi (ufficiali, live ed expanded edition compresi).
Toglietene uno e l'architettura viene giù: non c'era un metodo nella
sua follia, eppure la coerenza di Willy DeVille si nota ancora di più,
adesso che se ne è andato, perché, come nota Kenny Margolis,
storico tastierista dei Mink DeVille, "la sua musica è rimasta", ed
è lì da sentire, puro heart & soul. Zambo non l'ha soltanto elencata
titolo per titolo perché dentro il libro c'è il romanzo di Willy DeVille,
le sue donne, i suoi amori, le deviazioni e le tragedie, le chitarre
e le sigarette. Una bella fotografia di Fabio Nosotti lo ritrae, nel
backstage di un concerto, anno di grazia 1982, intento a studiare gli
accordi su una bella Gibson, un troubadour in cerca del suo perché.
Esistono immagini molto simili negli early days di Bruce Springsteen
e di Tom Waits, e allora ne ha di ragioni da sbattere sul piatto Blue
Bottazzi quando dice che "abbiamo amato molti musicisti di rock romantico
e rurale, in quegli anni settanta e ottanta da mucchio selvaggio, che
per noi erano fratelli di sangue: da Tom Petty a Chris Isaak, da Greg
Kihn a Jim Carroll, da Willie Nile a Steve Earle, da Ian Hunter a Joe
Ely, da Lee Fardon a Elliott Murphy, da John Mellencamp a John Hiatt,
dai Los Lobos ai Del Fuegos. Ma sono sicuro che il nostro numero uno
sia stato Willy". Ne era sicuro anche David Nieri, che ha preso in carico
Willy DeVille, e non poteva essere diversamente, dirigendo una collana
che si chiama Fanclub. E, ça va sans dire, ne era convinto Mauro
Zambellini avendogli dedicato un centinaio di pagine (quante ne bastano)
che trasudano love & emotion.
Non è solo quello, che pure è importante, per non dire indispensabile.
E' che se da vivo Willy DeVille era un bad boy (raffinato, di classe,
geniale, ma pur sempre un outsider), una volta varcati i cancelli del
cielo è stato dimenticato, anzi rimosso. Si poteva capire in altri tempi,
ma nei giorni (ieri, oggi) in cui l'industria discografica è attraversata
da un'interminabile e perversa scossa macabra e suicida, tale che persino
all'ultima, improbabile star dedicano ristampe e rivisitazioni, outtakes
e bonus track incluse, è inconcepibile che Willy DeVille sia stato lasciato
andare alla deriva senza un'antologia, un riepilogo di alternate takes,
un lost album, una retrospettiva. Niente di niente. Di motivi ce ne
saranno, eccome, ce ne sono sempre, ma intanto gli unici a ricordarlo
sono stati Peter Wolf e Boz Scaggs, e l'elenco finisce qui. A parte,
s'intende (e si sarà capito), Love And Emotion. Una
storia di Willy DeVille di Mauro Zambellini. Esistono labour of
love, e vanno bene tutte le prove d'amore, oggi come oggi. Quello di
Zambo è anche un atto di giustizia, e come tale vale molto di più. Almeno
quanto un coup de grâce.
Loser's
miracle (a cura di Fabio Cerbone)
Che la prima (e unica al momento) biografia di Willy DeVille
venga pubblicata in Italia non dovrebbe neppure sorprendere: il "gitano
del rock" è tanto vergognosamente ignorato in patria, dove a quasi
quattro anni dala sua tragica scomparsa sono pochissimi ad essersi ricordati
di lui, quanto giustamente considerato un culto in buona parte dell'Europa,
la sua vera casa come artista, luogo che lo ha compreso, adottato (si
pesi solamente al suo rapporto speciale con Parigi e la Francia) e reso
infine celebre, a cominciare da quel clamoroso successo che nella prima
metà degli anni Novanta (erano i tempi della versione mariachi di Hey
Joe e dello splendido album Backstreets of Desire) gli permise di
girare in tour con un band sfavillante, portando all'apice il suo intruglio
di brezze latine, sound di New Orleans, gipsy soul e rock da strada
maestra. Love and Emotion è la migliore definizione possibile
(oltre che uno splendido brano da Coup de Grace, anno di grazia 1981)
di una vita vissuta pericolosamente, ma sempre sul filo del romanticismo,
di una generosità assoluta per questa musica. Vero e proprio outsider
del rock'n'roll come lo definisce Mauro Zambellini in questo
suo accorato ricordo, scritto con il dettaglio del critico musicale
e al tempo stesso con il piglio di un entusiasta ammiratore, che ha
avuto altresì modo di conoscere Willy direttamente e di promuoverlo
in tempi non sospetti, attraverso le pagine di Mucchio Selvaggio e Buscadero.
Accompagnato da una accurata scelta di foto in bianco e nero, dai suoi
esordi agli ultimi mesi prima della malattia e della scomparsa, Love
and Emotion si addentra nei saliscendi della vita di Deville, raccontando
e raccogliendo canzoni e dischi, musicisti e amici, ma soprattutto facendo
respirare le atmosfere dei bassifondi di New York (il Lower East Side
da dove era partita la sua carriera), dei vicoli di Parigi (dove sognava
di incontrare la sua musa Edith Piaf) e di bayou di New Orleans (dove
ha trovato la sua seconda giovinezza), città che hanno segnato in maniera
indelebile il "savoir faire" di Deville.
William Paul Borsey jr all'anagrafe, un nome fin troppo british per
un vagabondo del rock come lui, ha pagato ingiustamente il suo essere
fuori dagli schemi, quell'aria da maudit romantico e quell'attrazione
fatale per i vizi più o meno riconosciuti della vita sulla strada, con
la sola differenza che la sua non era un posa, uno studiato e finto
manierismo da star, ma un autentico modo di essere, che in fondo non
ha mai chiesto il conto a nessuno se non a sé stesso (e magari
alle sue compagne di vita). Da questo punto di vista Love and Emotion
è molto preciso nel tracciare il percorso umano e discografico di DeVille,
due linee che viaggiano di pari passo e seguono gli alti e bassi di
un artista che ha inciso per Atlantic, Capitol e A&M, marchi storici
dell'industria musicale, ma si è sempre mosso voltando le spalle a quest'ultima,
incomprenso nel suo rovistare le anticaglie dell'american music, nel
flirtare con il soul d'annata, il rock'n'roll dei primordi, l'innocenza
del primo r&b, suoi amori dichiarati da sempre. Per questo anche album
importanti, profondi, in una parola banalmente belli come Cabretta,
Return to Magentam, Le Chat Bleu o Miracle sono finiti sotto traccia.
Di suo Willy ci ha messo un carattere spesso ingestibile certo, eppure
a quanti "maledetti" sono stati riservati ben altri onori (magari immeritati)?
L'uomo era complicato (e complesso) non c'è dubbio - e in Love
and Emotion un po' di questi sbagli salgono a galla - ma tutta
la sua affascinante poetica non viene certo scalfita. Con la prefazione
di Kenny Margolis, musicista che ha accopagnato Willy dall'avventura
dei Mink Deville fino ai suoi ultimi giorni, e due interessanti spunti
personali nella postfazione a cura di Marco Denti e Blue Bottazzi, Love
and Emotion di Mauro Zambellini colma orgogliosamente un vuoto su uno
dei musicisti americani più originali e spiritati di sempre.