Bruno Segalini
Fiamme e rock'n'roll
Romanzo veridico sullo sgombero del Leoncavallo, 1989

[ShaKe, 170 pp.]

Amazon.it

Cosa può fare un povero ragazzo, se non suonare in una rock'n'roll band? Non erano street fighting man, i Pila Weston: erano outsider anche tra i convinti outsider del Leoncavallo, Milano, estate del 1989, un secolo fa. Picchiano duro, ma senza alcuna ortodossia alle spalle. Sono una rock'n'roll band con tutte le strambe dinamiche che poco o niente si adeguano all'articolazione della dialettica politica. L'idea che hanno, in generale, è darci dentro, con il rock'n'roll, con la birra, con le fiamme, e così sia. Tra l'altro la loro natura non si è mai allontanata troppo dalle origini, che sono le strade, le panchine, i marciapiedi del quartiere: "Stufi di una vita fatta esclusivamente di teppismo, abbiamo deciso per l'unica cosa che ci interessava: mettere in piedi un gruppo musicale. Abbiamo assegnato gli strumenti a tavolino: tu il basso, tu canti, tu la chitarra e abbiamo raccolto i soldi per comprare l'occorrente. Il più era fatto, dovevamo solo trovare un posto dove fare casino". Lo trovarono dietro l'angolo, nel Leoncavallo. Il Leoncavallo è stato un luogo importante, un crocevia singolare, più di tutto, una città nella città. Questo è stata la sua colpa, il suo reato, il suo destino. Era un elemento dissonante rispetto alla conformazione piccola, borghese e autoreferente di quella Milano che stava scoprendo, come unica e grande novità, che la politica e gli affari erano le due facce della stessa moneta chiamata potere. Invece, il Leoncavallo, per quanto milanese fino al midollo, così inserito nei quartieri di Lambrate e del Casoretto, ai bordi delle periferie, era un posto con le porte aperte. Forse tolleranza non è la parola giusta da usare, perché i conflitti, le discussioni, gli "scazzi", come li chiama Bruno Segalini, erano all'ordine del giorno, ma anche se suonavi nell'ultima rock'n'roll band della provincia, un modo per arrivare sul palco lo trovavi senza che nessuno ti chiedesse il curriculum, la rassegna stampa, la tessera di turno. Questo fece sì che tutta una generazione che preferiva Jim Morrison a Herbert Marcuse emerse, ricavandosi all'interno del Leoncavallo uno spazio ulteriore, l'Helter Skelter, dove gli aspetti più visionari della cultura (chiamiamola underground, giusto per rapidità) ebbero modo di esprimersi in tutte le forme. Dalle prime reti telematiche al florilegio di fanzine, dal teatro al cinema, con la musica a svolgere il ruolo di propellente e catalizzatore.

Dalla più giovane gang scaturita dai garage dell'hinterland ai Sonic Youth, all'Helter Skelter ci arrivarono tutti anche perché era il posto ideale per fare Fiamme e rock'n'roll, proprio come lo descrive Bruno Segalini: "Tiene al massimo duecento persone e basta poco a riempirlo, ma proprio questa è la sua caratteristica migliore. Quando suoni su quel palco la gente te la senti davvero tutta addosso. Abbiamo provato questo feeling parecchie volte. Al buio, ti arrampichi sulla scaletta con la chitarra a tracolla, ti colleghi agli ampli e aspetti che la gente cominci a urlare, sempre più forte. Poi spari la prima canzone, la più potente. L'effetto dell'onda sonora costringe i corpi di quelli che stanno sotto a dondolare all'indietro e subito dopo, di rimbalzo, te li rovescia addosso. Stando lì sopra hai la sensazione che anche il palco si muova e che gli vada incontro". La coabitazione con i gruppi e le parti più militanti rimase tutta da inventare fino alla vigilia dello sgombero, tanto è vero che i Pila Weston si sentono dire, mentre stanno provando, inevitabilmente a tutto volume: "Domattina potremmo non essere più qui e voi non riuscite a far altro che far casino con quella minchia di chitarre". All'epoca, Bruno Segalini vive in una posizione privilegiata e double face. Lavora in uno studio televisivo che in quel periodo è il riflesso dell'altra Milano, quella scintillante e superficiale che sta imponendo un immaginario in apparenza banale, nella sostanza devastante (e quanto, non lo si è ancora ben compreso). Nell'orario di lavoro è testimone dei cortei di "politici, avvocati, giornalisti, nani, ballerine, comici, sportivi, non c'è più differenza. Si fatica a capire che mestiere facciano". Quel giorno, perplesso e titubante, Bruno Segalini intuisce che il Leoncavallo potrebbe "essere una rotellina di un ingranaggio più grande" e nella conformazione del romanzo fatto di Fiamme e rock'n'roll quella scintilla resta lì, nel buio, immobile. Prova a passare nei corridoi deserti della televisione per cercare conferma della notizia dello sgombero prossimo venturo, ma non trova nulla, nessuna conferma all'ultimatum lasciato filtrare fino al Leoncavallo. Rimane scettico, in sè persino rassicurato.

La sua riflessione non è relativa: nell'estate del 1989 il centro sociale si è evoluto, non è un corpo estraneo, "è una realtà ben inserita all'interno della città". Sembrerà paradossale, ma la storia racconterà che era esattamente quello il problema: una visione del futuro, molto più creativa, molto più disponibile alle sollecitazioni, anche internazionali, molto più moderna negli usi e costumi, molto più libera. Solo che i Pila Weston vengono raggiunti dalla minaccia dello sgombero in un momento delicato. Proprio quel giorno stanno vendendo le copie del loro primo disco, stampato in modo non meno rocambolesco dello sgombero del Leoncavallo, hanno pianificato un tour e stanno già pensando a tornare a incidere, dopo l'estate. Non osano nemmeno pensare di doversi trovare con la strumentazione distrutta o sequestrata e nel dubbio, "per non sapere né leggere né scrivere", come si dice a Milano, decidono di spostarla in un posto più sicuro. Non che abbiano a disposizione chissà quali mezzi: la macchina di Bruno Segalini ha il radiatore scoppiato e l'organizzazione è resa precaria dall'afa, dalle birre e da altre distrazioni a cui i Pila Weston non sanno resistere, ma più di tutto incombe l'assurdità dello sgombero, che non riescono a spiegarsi. Fiamme e rock'n'roll in questi frangenti è più verace che veridico, la lingua diventa gergo, immediata, sporca e immaginifica e seguendo la lunghissima giornata dei Pila Weston alla vigilia dello sgombero si scopre l'esistenza di un'entità chiamata "il mostro" o di un luogo denominato "la stanza del vomito". Il racconto di Bruno Segalini nella sua spontaneità ha una leggerezza che riesce a rendere palpabili quegli attimi, conservandoli come istantanee. Se c'è un aneddoto simbolico, è quando i Pila Weston, come sempre in riserva sparata, si mettono a svuotare una delle molotov preparate per resistere allo sgombero, per recuperare la benzina necessaria al trasloco di chitarre, ampli e batteria. Nonostante gli sforzi, si ritrovano barricati sui tetti del Leoncavallo e, all'alba del giorno dopo, la battaglia ha inizio.

Le sequenze dello sgombero sono pura azione, frenetiche, con il susseguirsi dei tentativi di rallentare l'intervento delle forze dell'ordine, solo che è chiaro a tutti che non sarà come le altre volte. Il dispiegamento militare, l'accerchiamento, persino gli elicotteri, lasciano pensare che lo sgombero non sarà solo lo sgombero. E' la distruzione. Il Leoncavallo è l'ultimo baluardo di una città sull'orlo di una crisi di nervi. La sua "illegalità" (rigorosamente tra virgolette) non può essere tollerata dal "nuovo che avanza" e ancora meno dal vecchio regime socialdemocratico che sta implodendo nella sua decadenza. La decisione, nel bel mezzo di agosto con la città deserta, rivela tutta la sua ambiguità che qualcuno, in modo molto prosaico, spiega con il fatto che sta succedendo "forse perché qualcun altro vuole mangiare al posto loro". E' un elemento del romanzo di Bruno Segalini che emerge da uno dei tanti concitati dialoghi e da cui si percepisce la distanza siderale tra chi il Leoncavallo, le strade, la città le ha vissute e chi le ha ridotte in macerie. Come ogni romanzo che si rispetti, anche Fiamme e rock'n'roll ha un lieto fine, ma si sente tutta la malinconia dei Pila Weston quando, dopo l'obbligato passaggio di rito nelle patrie galere, si ritrovano davanti ai resti inutili del Leoncavallo. E' resistito solo l'Helter Skelter, ma come puntualmente nota Bruno Segalini era un seminterrato, con tutte le valenze simboliche che gli si possono attribuire, ovvero restate nell'undeground, sotto terra. Invece no. Il libro finisce con una foto in bianco e nero della straordinaria manifestazione che nei giorni successivi lo sgombero sorprese la città, un'altra volta. La prospettiva è singolare, a guardarla con attenzione: dietro la frontline tutta al femminile, c'è il manifesto "contro i padroni della città" e sopra quello, appeso di traverso, un altro striscione che pubblicizzava una mostra del comune di Milano chiamata La forma del lavoro. L'associazione viene spontanea, perché il caso, unendo le due frasi in mezzo alla strada, ha voluto separare con chiarezza chi ha costruito da chi ha distrutto, chi ha condiviso da chi ha sperperato, chi ha aperto le porte da chi le ha chiuse, chi si è mostrato da chi si è nascosto, le passioni private (a partire dalla musica) che sono diventate utilità pubbliche, ben distinte da istituzioni asservite a interessi privati, il più delle volte inconfessabili.

Ecco spiegato, a cosa servono Fiamme e rock'n'roll: a dare una forma al lavoro contro i padroni della città. Da allora, sul Leoncavallo sono state scritte infinite analisi, in diverse versioni, c'è stato anche l'inevitabile libro bianco, c'è (e ci sarà sempre) il caso, emblematico, di Fausto e Iaio che ritorna, ogni anniversario come un'ulteriore premonizione, ma come ricorda Sandrone Dazieri nella prefazione "gli scontri dell'agosto 1989 non erano stati l'inizio di una nuova fase come andavamo sbandierando, ma l'apice della parabola di una generazione politica e la fine della nostra innocenza". Fiamme e rock'n'roll è davvero là, in cima alla curva, con un punto di vista sanguigno e caotico, ma non meno importante, perché una rock'n'roll band, a modo suo, è una città, una repubblica, un modo di stare nel mondo.


 


<Credits>