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Lawrence
Ferlinghetti a cura di Donata Ricci “Lawrence, cos’è il Jefferson Airplane?”
Quando gli ho spiegato che era un gruppo rock che avrebbe suonato solo
alla fine del reading di poesia, ha detto “Lawrence, solo tu ed io.
Niente Aeroplano” Ma più tardi ci ha ripensato e ha detto “Ok, non cancellare
l’Aeroplano” … E i Jefferson Airplane sono decollati. Un botta e
risposta con il poeta moscovita Andrej Voznesenskij in cui, nonostante
la divergenza di vedute, non c’è ombra di tensione. Archetipico del
Ferlinghetti-pensiero. Si scorrono le migliaia di pagine della sua produzione
letteraria e i suoi 35.770 giorni (98 anni) di vita fin qui vissuta,
senza incappare in uno scostamento dal pentagramma della moderazione.
Si direbbe serenità genetica, predisposizione empatica verso l’uomo,
favorita dal disinteresse per ogni forma di conflitto. Le arrabbiature
non mancano, ma sono sane e sanno contenersi in invettive pacate. Il
pensiero è profondo e lieve insieme, immune da cedimenti alla superficialità
e soprattutto al vuoto di senso: ogni frase, ogni verso ha un significato
e non è così scontato, se ci pensiamo. I vocaboli sono pertinenti, le
onomatopee giovano alla causa, l’interpunzione e la metrica fanno il
resto. Tutto ciò colloca questo scrittore fra i titani della contemporaneità.
Si serve dell’ironia per conservare la misura e non prendersi troppo
sul serio. Ironia pluridiretta: Il mondo è un gran bel posto per
nascerci se non vi dà fastidio che la felicità non sia sempre poi tutto
‘sto spasso. Autoironia: Ho visto le menti migliori di varie generazioni
uccise dalla noia ai reading di poesia. Per autodefinizione poeta & folle, peccatore
& viaggiatore assurdo, Ferlinghetti porta i suoi reading
di poesia in ogni anfratto del globo. A chi ama il rock’n’roll è rimasto
nel cuore il suo intervento a The Last Waltz della Band,
dove recita un personale e apocrifo adattamento del Padre Nostro. Intanto
accumula conoscenza su e giù per il continente, a piedi, bang bang,
su qualsiasi mezzo, treno, macchina, fuoristrada, diligenza, a piedi,
sulle Grandi Pianure, carri dei pionieri nella notte. Incontra lampioni
ubriachi di solitudine nelle stazioni ferroviarie del Wyoming; a
New York finisce con Jack Kerouac a casa della sua ragazza nelle West
Seventies giusto per chiedersi: e a ogni modo, che ci faccio qui
con lui, a un certo punto dell’eternità? Nel 1967 sale su un Soviet
Air Flot con rotta sul Grande Inverno Russo, sorvolando una pianura
marrone chiaro (Sopra quale storia stiamo volando?) per poi affrontare
i trenta gradi sotto zero della tundra e il delirio febbricitante della
Transiberiana (C’è un vuoto immenso nella vita sovietica che guarda
fisso dagli occhi delle persone ovunque). Come la solitudine, cercata
ma anche un poco subita, a Oaxaca, Messico, in un rovente pomeriggio
di agosto dell’82 (La solitudine è ancora una maledizione. Le persone
che volevano accompagnarmi in questo viaggio devono capire, ancora una
volta: devo essere solo in viaggi come questo. Altrimenti non sarebbero
viaggi come questo). Ma c’è anche il Lorenzo dell’impegno civile, o dell’onesto disimpegno. Va in Nicaragua nell’84 per regalare a Ernesto Cardenal, poeta e ministro della cultura, il seme di un fiore cresciuto sulla tomba di Boris Pasternak: testimonianza della capacità della poesia di trascendere le frontiere. Ha in testa la convinzione che quanto sta accadendo nel Nicaragua sandinista non sia, di fatto, una rivoluzione, ma piuttosto il rovesciamento di un tiranno – Somoza – appoggiato dagli Stati Uniti (rieccoci…), giungendo alla conclusione, sempre più dissociata dal pragmatismo politico e sempre più ebbra di poesia, che ogni posto è come ogni altro posto a quest’ora della notte. E prima ancora a Cuba – 1960 – per una esilarante parodia della presunta pericolosità del governo castrista (Sto tenendo gli occhi ben aperti per vedere bande erranti di Soldati Ribelli armati, con l’ordine di sparare a vista a chiunque sembri sospetto). Perché, diciamolo, il poeta cieco per autodefinizione in realtà ci vede perfettamente, il lume non si è mai spento e sa inventarsi un titolo come A Coney Island of the mind che da solo è già poesia. Del resto anche il Ferlinghetti artista visuale ha vista acuta, tanto da essere considerato elemento portante del movimento Fluxus, una derivazione del dadaismo e del surrealismo, promosso in Italia dal veronese Francesco Conz, suo amico e sodale. Come non sorridere leggendo quel Fuck art, let’s dance scritto sulla spilla appuntata alla sua giacca, proprio lui che si sente più pittore che poeta? E così il quasi centenario Lorenzo Ferlinghetti, barba candida ma sguardo ancora fiammeggiante, confessa che ha vissuto. Intensamente, voracemente. Accogliendo con naturalezza l’offerta dei giorni e con curiosità le bizzarrie del proteiforme genere umano. Fu la smisurata ammirazione per lui a impedirmi di avvicinarlo, come colta dalla sindrome di Stendhal, mentre con il cuore a mille calcavo le assi del City Lights Bookstore a San Francisco. Lo lasciai indisturbato tra gli stretti scaffali stracolmi di volumi ed il profumo inebriante del legno e della carta. Mancavano pochi mesi allo scoccare del millennio. Ma mi riscattai tre anni dopo quando Lorenzo venne in Italia. E allora sì che, grazie alla Nanda, potei conoscerlo e chiedergli di autografarmi la Pocket Poets Anthology che acquistai quel giorno a City Lights. Riuscii così a chiudere il cerchio, ne sono felice ancora oggi e tanto basta. Per il resto le cose non dette rimarranno non dette. Quelle, sono scritte nei libri.
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