Lawrence Ferlinghetti
Scrivendo sulla strada

a cura di Donata Ricci

“Lawrence, cos’è il Jefferson Airplane?” Quando gli ho spiegato che era un gruppo rock che avrebbe suonato solo alla fine del reading di poesia, ha detto “Lawrence, solo tu ed io. Niente Aeroplano” Ma più tardi ci ha ripensato e ha detto “Ok, non cancellare l’Aeroplano” … E i Jefferson Airplane sono decollati. Un botta e risposta con il poeta moscovita Andrej Voznesenskij in cui, nonostante la divergenza di vedute, non c’è ombra di tensione. Archetipico del Ferlinghetti-pensiero. Si scorrono le migliaia di pagine della sua produzione letteraria e i suoi 35.770 giorni (98 anni) di vita fin qui vissuta, senza incappare in uno scostamento dal pentagramma della moderazione. Si direbbe serenità genetica, predisposizione empatica verso l’uomo, favorita dal disinteresse per ogni forma di conflitto. Le arrabbiature non mancano, ma sono sane e sanno contenersi in invettive pacate. Il pensiero è profondo e lieve insieme, immune da cedimenti alla superficialità e soprattutto al vuoto di senso: ogni frase, ogni verso ha un significato e non è così scontato, se ci pensiamo. I vocaboli sono pertinenti, le onomatopee giovano alla causa, l’interpunzione e la metrica fanno il resto. Tutto ciò colloca questo scrittore fra i titani della contemporaneità. Si serve dell’ironia per conservare la misura e non prendersi troppo sul serio. Ironia pluridiretta: Il mondo è un gran bel posto per nascerci se non vi dà fastidio che la felicità non sia sempre poi tutto ‘sto spasso. Autoironia: Ho visto le menti migliori di varie generazioni uccise dalla noia ai reading di poesia.

E sì che non gli mancherebbero ragioni per esercitare il rancore, a partire da quel destino familiare che gli ruba il padre prima che lui nasca e che accompagna la madre, troppo fragile per crescerlo da sola, dritta in manicomio. Eppure, tra zia Emily e famiglia adottiva, il ragazzino Lawrence riesce a tener saldo il timone della propria esistenza, tirandone fuori il miracolo che sappiamo. Che è generosamente raccontato nelle cinquecento pagine del fresco di stampa Scrivendo sulla strada – Diari di viaggio e di letteratura, sapientemente tradotto, ma soprattutto fortemente voluto, da Giada Diano, divulgatrice del verbo ferlinghettiano nel nostro Paese (n.d.r. Giada ha curato la recente, interessantissima mostra bresciana A life: Lawrence Ferlinghetti, Beat Generation Ribellione Poesia, nonché quella veronese del 2016). Un diario che è una bibbia laica da tenere sul comodino e da centellinare sera dopo sera per succhiarne il nettare senza nulla sprecarne. Perché da ogni segmento di questo incessante viaggiare che copre mezzo secolo, da un capo all’altro del pianeta come una biglia da flipper, emanano una saggezza affatto cattedratica e un impagabile senso di pace. Non è mai arrabbiato Lorenzo, come lo appellava l’indimenticabile Fernanda Pivano in omaggio alle sue radici italiane, anche quando ne avrebbe ben donde. Di fronte ad una situazione negativa, ne constata l’oggettività, per derubricarla subitaneamente a categoria delle umane manifestazioni e passare oltre, verso ulteriori conoscenze.

Un antropologo lirico. Sempre curioso, con quegli occhi marini che scrutano sornioni, desideroso di comporre il grande poema indelebile o più semplicemente che abbia luogo la prima erezione e la prima Resurrezione. Una dolce inquietudine, un duende che gli fa dire cose come da qualche parte ho letto il Significato dell’Esistenza ma mi sono dimenticato esattamente dove. Aspetta il suo turno e aspetta soprattutto a rebirth of wonder, una rinascita dello stupore. Lo fa con uno stile tutto suo perché, ormai lo sappiamo, Lorenzo non si considera un beat, pur avendo pubblicato, amato, difeso come figli gli scrittori della Beat Generation. Preferisce definirsi bohemienne e mi sa che ha ragione lui. Anche se non è a questa definizione che avremmo pensato allorquando, in divisa da capitano di un cacciasommergibili della Marina americana, fu testimone dello sbarco in Normandia. Però è facile immaginare come la sua sensibilità sia stata scossa visitando Nagasaki poco dopo che l’atomica l’aveva rasa al suolo. E come, in un’allucinazione da notte messicana, sia maturata la sua soave iconoclastia contro il potere politico (Sull’autobus sono tutti diplomatici in tight e si stanno soffiando il naso con varie bandiere. La bandiera più popolare per questo scopo sembra essere quella nordamericana… Una stella cade dalla bandiera, la raccolgo e la metto in tasca. Uno stato extra può sempre tornarmi utile). Prende a sberleffi le istituzioni nella loro pretesa di supremazia sulla libertà dell’individuo, ieri come oggi: quando nel 2016 compare via Skype agli amici veronesi dal suo rifugio di North Beach, Lorenzo indossa la maschera di Lady Liberty e prende posizione contro Trump. Non poteva prevedere, questo vivente di lungo corso un’altra pugnalata alla schiena, la più grave. Il primo esempio di fascismo realizzato negli USA.

Per autodefinizione poeta & folle, peccatore & viaggiatore assurdo, Ferlinghetti porta i suoi reading di poesia in ogni anfratto del globo. A chi ama il rock’n’roll è rimasto nel cuore il suo intervento a The Last Waltz della Band, dove recita un personale e apocrifo adattamento del Padre Nostro. Intanto accumula conoscenza su e giù per il continente, a piedi, bang bang, su qualsiasi mezzo, treno, macchina, fuoristrada, diligenza, a piedi, sulle Grandi Pianure, carri dei pionieri nella notte. Incontra lampioni ubriachi di solitudine nelle stazioni ferroviarie del Wyoming; a New York finisce con Jack Kerouac a casa della sua ragazza nelle West Seventies giusto per chiedersi: e a ogni modo, che ci faccio qui con lui, a un certo punto dell’eternità? Nel 1967 sale su un Soviet Air Flot con rotta sul Grande Inverno Russo, sorvolando una pianura marrone chiaro (Sopra quale storia stiamo volando?) per poi affrontare i trenta gradi sotto zero della tundra e il delirio febbricitante della Transiberiana (C’è un vuoto immenso nella vita sovietica che guarda fisso dagli occhi delle persone ovunque). Come la solitudine, cercata ma anche un poco subita, a Oaxaca, Messico, in un rovente pomeriggio di agosto dell’82 (La solitudine è ancora una maledizione. Le persone che volevano accompagnarmi in questo viaggio devono capire, ancora una volta: devo essere solo in viaggi come questo. Altrimenti non sarebbero viaggi come questo).

Solitudini necessarie, solitudini differenti. Quella rigenerante delle Pleiadi intraviste dal capanno di Big Sur, ma anche quella desolante di un’America da brochure promozionale che millanta un resort a Salton Sea, California, dove non c’è traccia di spiaggia, ma ci sono le case sulla spiaggia (Immagina di dover trascorrere una vita condannato a passare da un motel a un altro, da una stanza d’albergo a un’altra, tutte uguali, prima classe, le stesse lenzuola immacolate, gli stessi bicchieri avvolti in carta sterile cerata, la Bibbia di Gideon nel cassetto, nessuno a cui parlare a parte gli impiegati dell’albergo… Solitudine di milioni che vivono così, tra cocktail, stazioni di servizio, autobus, treni, paesi, ristoranti, cinema, autostrade che conducono oltre gli orizzonti fino a un’altra Fermata. Tristi i fagotti nelle sale d’attesa delle stazioni degli autobus, tristi le donne con i capelli crespi sedute accanto ai fagotti, le vecchie coppie sulle panchine che parlano in vecchie lingue, i clandestini messicani con le borse a tracolla che si risistemano nei bagni degli uomini. Triste speranza di tutti i loro viaggi verso il Nulla e indietro nell’Eternità buia… Ogni cosa sembra essere a un punto morto. Le persone, i film, l’arte, la politica, la terra stessa, ogni cosa in attesa, bloccata, addormentata o morta). Non sorprende che porti con sé una copia di "Incubo ad aria condizionata" di Henry Miller.

Ma c’è anche il Lorenzo dell’impegno civile, o dell’onesto disimpegno. Va in Nicaragua nell’84 per regalare a Ernesto Cardenal, poeta e ministro della cultura, il seme di un fiore cresciuto sulla tomba di Boris Pasternak: testimonianza della capacità della poesia di trascendere le frontiere. Ha in testa la convinzione che quanto sta accadendo nel Nicaragua sandinista non sia, di fatto, una rivoluzione, ma piuttosto il rovesciamento di un tiranno – Somoza – appoggiato dagli Stati Uniti (rieccoci…), giungendo alla conclusione, sempre più dissociata dal pragmatismo politico e sempre più ebbra di poesia, che ogni posto è come ogni altro posto a quest’ora della notte. E prima ancora a Cuba – 1960 – per una esilarante parodia della presunta pericolosità del governo castrista (Sto tenendo gli occhi ben aperti per vedere bande erranti di Soldati Ribelli armati, con l’ordine di sparare a vista a chiunque sembri sospetto). Perché, diciamolo, il poeta cieco per autodefinizione in realtà ci vede perfettamente, il lume non si è mai spento e sa inventarsi un titolo come A Coney Island of the mind che da solo è già poesia. Del resto anche il Ferlinghetti artista visuale ha vista acuta, tanto da essere considerato elemento portante del movimento Fluxus, una derivazione del dadaismo e del surrealismo, promosso in Italia dal veronese Francesco Conz, suo amico e sodale. Come non sorridere leggendo quel Fuck art, let’s dance scritto sulla spilla appuntata alla sua giacca, proprio lui che si sente più pittore che poeta?

E così il quasi centenario Lorenzo Ferlinghetti, barba candida ma sguardo ancora fiammeggiante, confessa che ha vissuto. Intensamente, voracemente. Accogliendo con naturalezza l’offerta dei giorni e con curiosità le bizzarrie del proteiforme genere umano. Fu la smisurata ammirazione per lui a impedirmi di avvicinarlo, come colta dalla sindrome di Stendhal, mentre con il cuore a mille calcavo le assi del City Lights Bookstore a San Francisco. Lo lasciai indisturbato tra gli stretti scaffali stracolmi di volumi ed il profumo inebriante del legno e della carta. Mancavano pochi mesi allo scoccare del millennio. Ma mi riscattai tre anni dopo quando Lorenzo venne in Italia. E allora sì che, grazie alla Nanda, potei conoscerlo e chiedergli di autografarmi la Pocket Poets Anthology che acquistai quel giorno a City Lights. Riuscii così a chiudere il cerchio, ne sono felice ancora oggi e tanto basta. Per il resto le cose non dette rimarranno non dette. Quelle, sono scritte nei libri.


    


 


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