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Josh
Ritter - a cura di Marco Denti -
I miti americani sono restii a morire, proprio
perché è l’idea di un’intera nazione che si regge su quei pilastri ingombranti
ed effimeri, e qui ci sono tutti: la frontiera, il duro lavoro, la natura
selvaggia e la conquista e il possesso della terra che poi è alla base
della trama di Una grande, gloriosa sfortuna. Le valenze
metaforiche che alimentano il romanzo hanno un senso particolare per
come le rivede lo stesso Josh Ritter, dato che quel sistema di
visioni resiste nel tempo: Una grande, gloriosa sfortuna è proprio
quella ereditata da Weldon Applegate, che a tredici anni perde il padre
e si ritrova proprietario di un appezzamento di foresta nell’Idaho,
in un luogo irraggiungibile chiamato, non a caso, Territorio Perduto.
Rimbalzate di un secolo, le logiche del West si risolvono in uno scontro con il diretto vicino, Joe Moffreau, che sta dall’altra parte della strada, con tutte le sue fandonie, come se le aspettative sul controllo del territorio (perduto, e non) si siano ridotte a tutelare l’ingresso di casa, e poco altro. Il confronto si trasforma in una guerra d’attrito dalle conseguenze imprevedibili ed è dove la voce del protagonista assoluto di Una grande, gloriosa sfortuna si sente con maggior forza, così come spiegava Josh Ritter: “Come scrittore, ho sempre avuto paura di avere una riserva limitata di personaggi o di canzoni nella mia testa. Ho lottato così tanto con questa percezione nella mia musica, che, quando ho iniziato a lavorare con Weldon Applegate, ho lasciato uscire la sua voce, e ho capito che c’era un pozzo lì, tutto da esplorare. Ci sono tutti i personaggi laggiù, e ho cominciato a pensare che verranno sempre. Io devo solo ascoltarli”. Dalla disputa del Territorio Perduto, poi riproposta in sedicesimi nella diatriba con l’insopportabile Joe Moffreau, anche dal punto di vista verbale stiamo parlando di una rappresentazione chiara e comprensibile della lotta per il controllo del territorio, che ha i contorni di qualcosa di animalesco, e nella versione aggiornata e ridotta ai nostri giorni, è la conferma, come si dice nello shakespeariano Re Lear, (uno dei principali punti di riferimento di Josh Ritter) che “da niente non verrà fuori niente”. E siamo lì, e da lì non ci si muove.
La maestosità del paesaggio, della montagna, degli
alberi e più in generale della wilderness ha un valore a più livelli.
Partono dall’esperienza autobiografica di Josh Ritter, che ha
trovato l’occasione per precisare le coordinate sulla mappa: “In
poche parole, si tratta dell paesaggio dell’Idaho settentrionale. Ho
iniziato la mia vita come romanziere con il desiderio di catturare la
bellezza di quel luogo, e sapevo di non essere pronto con il mio primo
romanzo. Ci è voluta la fiducia sorta con quell’esperienza per farmi
sentire che era giunto il momento di provare. Sono cresciuto con le
montagne accanto, e con la nozione che qualcosa di colossale fosse già
lì prima che io nascessi. È stato come se, in un certo senso, il mondo
del mito fosse finito con la mia nascita, e il mondo moderno avesse
inglobato i boschi. Volevo tornare a un tempo in cui i boschi erano
pieni di magia e la natura era la principale protagonista”. Quell’afflato
si presenta con regolarità come un refrain, almeno quanto la coabitazione
con il bagaglio musicale che filtra in continuazione nelle ricostruzioni
di Josh Ritter: “Ho scritto il romanzo come una specie di canzone
d’amore alla sensazione di essere inghiottito dai pini e perso in montagna”.
L’insistere sull’habitat delle canzoni è logico, vista la carriera parallela
di songwriter, ma c’è qualcosa in più che affiora nel corso di Una grande,
gloriosa sfortuna: “Diventare un romanziere, per me, ha significato
imparare a creare in un ambiente che è completamente diverso da quello
del musicista e del cantautore. La fame, però, è la stessa. La stessa
voglia di comunicare con il mondo alimenta entrambe le pratiche. Sono
un ragazzo timido. Non mi avvicino al mondo facilmente. Ecco perché
ho iniziato a cantare, ed è per questo che ho cominciato a scrivere
romanzi”. Il mistero si associa anche a una certa grazia, maturata con le letture di Muriel Spark, Tom Robbins, Philip Dexter, Stephen King, a cui Josh Ritter ha attinto a piene mani, senza nasconderlo: “Ho imparato che le parole, l’acqua, riempiono qualsiasi recipiente in cui si sceglie di versarli. Un sonetto è un bicchiere d’acqua, una canzone è un altro bicchiere. Un romanzo è un secchio dalla forma buffa. L’acqua è la stessa, ma la forma che assume è mutevole. Come cantautore, devo dire che mi sono abituato agli applausi alla fine della mia giornata, ma quell’applauso non sembra arrivare mai quando riesco a scrivere un paragrafo da solo nella mia cucina”. E come ogni favola che si rispetti, perché Una grande gloriosa sfortuna è anche questo, non manca una spicciola morale, che si può riassumere così, con le parole di un maturo Weldon Applegate: “Chi vi dice di essere stato deluso da voi dice un mare di cazzate, potete anche ignorarlo. Significa solamente che state facendo ciò che volete e non quello che loro vorrebbero che faceste. Le persone che vi vogliono bene sul serio non vi diranno mai che le avete ferite”. Per Josh Ritter questo ha un significato ben preciso: “Gli eroi creativi sono sempre alla ricerca di persone che spingono grandi trasformazioni nella loro arte e cambiano continuamente. E riescono ad avere vite e famiglie che non sono consumate dalla loro arte. La loro arte non li mangia. Riescono ad alimentare il fuoco senza bruciarsi”. È un po’ il nocciolo duro e succoso di Una grande, gloriosa sfortuna, che è espresso con chiarezza da Josh Ritter, ancora una volta attraverso Weldon Applegate: “Penso sia questo che ricerchiamo nei nostri miti: la speranza di essere compresi”. Ognuono ha i suoi e le fonti di ispirazione dichiarate sono Bob Dylan, Leonard Cohen, Gillian Welch, Paul Simon e, più di tutti, Tom Waits. Non avevamo dubbi. Dal blog di BooksHighway, la recensione di "Una grande, gloriosa sfortuna"
Josh Ritter, un ritratto e la discografia su RootsHighway - a cura di Fabio Cerbone - Tra i protagonisti più brillanti ed espressivi
dell’ultima generazione di folksinger americani, Josh Ritter,
originario di Moscow, Idaho, innamorato dell’Irlanda (terra che gli
ha portato molta fortuna a inizio carriera), vive da qualche anno in
una casa a Woodstock, ha ascoltato certamente Bob Dylan (e altrettanto
Leonard Cohen e Paul Simon) e adora William Shakespeare. Ce n’è abbastanza
per tracciare un primo sommario ritratto di un autore che insieme a
poche altre voci - da Ryan Adams a Damien Rice, passando per Ray Lamontagne
e Iron & Wine, giusto per citare qualche “anima gemella” - ha aggiornato
le coordinate del linguaggio folk rock negli ultimi vent’anni.
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