Bruce Conforth , Gayle Dean Wardlow
Il diavolo, probabilmente – Vita
di Robert Johnson [Il
Saggiatore, pp. 329]
“Robert
Johnson arriva in città”. È il titolo del primo capitolo di questo affascinante
e impegnativo testo, frutto di almeno quattro decenni di lavoro da parte
di Bruce Conforth e Gayle Dean Wardlow. Eccellenti esperti
di blues, storici e ricercatori, in particolare si deve a Wardlow il
ritrovamento nel 1968 del certificato di morte di Robert, primo atto
concreto in mezzo al mare di supposizioni riguardanti la vita del musicista,
scomparso nel 1938 a soli ventisette anni.
Bluesman, vagabondo, donnaiolo impenitente. Johnson, chi era costui?
È l’inquietante domanda di sempre. Fatto sta che “quando Robert arriva
in città” succede di tutto, i mariti danno l’allarme, le serrande si
abbassano, la musica sembra risuonare per tutto il delta del grande
fiume. Chi era questa (almeno per molto tempo) oscura figura? A detta
di molti, chi ascoltava i suoi brani, spesso in strada o in qualche
locale “downhome”, veniva assalito da una strana eccitazione; era in
fondo un mezzadro che rifuggiva la vita nei campi, un poeta e un cantore,
comunque uno che a scuola ci era stato eccome, come risulta da alcuni
registri. Secondo il figlioccio Robert Lockwood, aveva la passione per
la lettura e, come ricordano alcuni, la “particolare attitudine nell’annotare
le cose sul suo taccuino”; che forse certe liriche, intense, struggenti,
a volte deliranti, non si scrivono per caso.
Già prima di aver effettuato le prime incisioni, concentrate in un paio
di sessioni (a San Antonio e a Dallas, TX., rispettivamente 1936 e 1937,
grazie al talent scout H.C. Speir), Johnson era famoso in tutta l’area,
ammirato per la sua tecnica. A detta di alcuni colleghi, per esempio
Son House o Willie Moore (già musicista poi “bettoliere professionista”!),
fino a un certo punto fu uno dei tanti versatili suonatori itineranti,
armonica e sei corde, niente di che. Improvvisamente, a ricordarlo è
lo stesso Moore, “fu un grande, uno che conosceva il Si bemolle e le
strane accordature aperte, persino Do in Mi minore” (“Tra un crocicchio
e l’altro”). “Suonava da solo basso, accordi e melodia”, ebbe a osservare
incredulo Ishmon Bracey, chitarrista.
In mezzo c’è tutta la vicenda del patto al crocicchio, il “crossroads”,
la “favola sinistra” (cit.); in gioco c’è l’anima di un uomo dannato
in cambio di una straordinaria abilità nel cantare e suonare la chitarra.
Su quel terribile contratto si è scritto, filmato e immaginato di tutto
(uno sugli altri, Searching For Robert Johnson di Peter Guralnick).
“Robert Johnson è stato una sorta di fantasma (cit.)” e questo
di certo ha contribuito ad alimentare il mito; in molti, da Mack McCormick
a Steve LaVere, si sono prodotti per fare un po’ di luce sulla sua esistenza
piena di notizie “certe fino a prova contraria”. Solo una cosa appare
inconfutabile: la musica, distillata in ventinove brani che mostrano
al mondo intero la caratura del personaggio e cambiano, se non la vita,
almeno la carriera di molti artisti del rock a venire, da Eric Clapton
a Bob Dylan e Keith Richards. Pezzi accorati e bellissimi come Terraplane
Blues (l’unica hit) o Love In Vain, l’arte della slide, le
“open tuning”, il finger-picking e quell’inconfondibile incedere “boogie”,
come se gli strumentisti fossero due o tre.
Fu veramente il demonio? Anche se il patto faustiano risulta molto comune
per il folclore del sud, più prosaicamente fu un certo Ike Zinnerman
a istruire il ragazzo, come narrato con dovizia di particolari (“Arriva
quello della chitarra”) Una persona strana e reale, come in carne ed
ossa sono tutti quei personaggi, colleghi (Johnny Shines, David Edwards
o Willie Brown), familiari e semplici “passanti”, riportati in questo
Il Diavolo, probabilmente (titolo originale Up Jumped
The Devil: The Real Life Of Robert Johnson); tutta gente buona per
un romanzo, la cui esistenza si è in qualche modo intersecata con quella
di Johnson.
Bisogna solo essere bravi a non scalfire del tutto il mito e Conforth
e Gayle riescono nell’intento. Non rinunciano a una buona dose di narrazione
(“Robert Johnson contemplò i campi di cotone che si stendevano senza
fine. Cotone dappertutto”, 'Ritorno al Delta') e lavorano per anni
alla stesura di quest’opera che vede la luce nel 2019, esplorando ogni
possibile aspetto del musicista, dall’infanzia all’età adulta, agli
anni della sua formazione (un continuo peregrinare per tutta l’area,
lungo argini, ferrovie e strade polverose), ai rapporti con le donne,
i matrimoni, i lutti laceranti, fino a una scomparsa le cui dinamiche
appaiono abbastanza chiare (pur con qualche aspetto controverso) e che,
per assurdo, contribuisce a proiettarne l’icona “fino al futuro del
rock’n’roll”. “L’uomo non c’era più, stava per cominciare la leggenda”,
in tempo per sfuggire a tutti i Lomax e gli Hammond del caso.
Gli autori confortano l’intero volume con note, testimonianze, certificati,
foto laddove possibile, consentendo una messa a fuoco del personaggio
e in definitiva di un’epoca intera; allo stesso tempo usano accortezza
per evitare di frantumare interamente quella leggenda e sta qui forse
la bellezza del libro. Oltre, beninteso, all’enorme quantità di dati
raccolti che rendono assolutamente indispensabile l’opera, per addetti
ai lavori, appassionati e non solo. Ottima la traduzione di Marco Bertoli.
“Il folklorista Mack McCormick l’ha definito un fantasma. Noi pensiamo
a un camaleonte, pronto a trasformarsi di volta in volta”, affermano
i due. Come dire, la vera vita di Robert Johnson. Ma sempre a luci soffuse.
Eccellente.