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The
Song Is You - a cura
di Marco Denti -
John Berger è stato uno degli intellettuali occidentali più indipendenti,
lucidi e indomabili. Si considerava uno storyteller ma era un artista
creativo capace di districarsi con disinvoltura tra pittura, critica,
cinema, fotografia, narrativa e politica. Geoff Dyer, l’autore di Natura
morta con custodia di sax, spiegava che, con Berger, “il pensiero
si traduce in un atto di lavoro quasi fisico. Ciò dipende in parte dal
rifiuto di separare i due grandi interessi che hanno dominato la sua
e il suo lavoro: l’inesauribile mistero della grande arte e la vita
vissuta degli oppressi”. Non è stato l’unico a notarlo. Un altro
scrittore, Salman Rushdie, sosteneva che “le sue idee sono state
più importanti dei suoi sogni” e, se nel corso del tempo si sono
rivelate “sacche di resistenza”, è perché viaggiavano attraverso la
limpida realtà del linguaggio, diretto e chiarissimo, tanto che Colum
McCann diceva: “Le sue storie bussavano alla mia porta. Arrivavano
a piedi nudi. Saltavano nei tini di legno che avevo nella mente. Si
trasformavano in vino. Bevevo e diventavo il loro canto”. Il riferimento
alla musica arriva al momento giusto ed è lo stesso John Berger a confermarlo:
“Sono i potenti a scrivere la storia mentre sono i poveri senza potere
a scrivere le canzoni e io amo la poesia e le canzoni”. La qualità
del repertorio, selezionato dalla sua onorevole bibliografia, parla
da sola.
Del resto, una consistente parte di Confabulazioni è dedicata all’analisi delle canzoni che “connettono, raccolgono e riuniscono. Di conseguenza sono punti d’incontro anche quando non vengono cantate”. Uno degli esempi è Shenandoah, che la madre gli cantava da piccolo e che John Berger ricorda così: “Shenandoah era il nome di un capo nativo americano, e di un fiume, un affluente del Missouri che confluisce nel Mississippi. Shenandoah finì per essere cantata spesso dai neri, perché il Missouri separava il Sud schiavista dall’America del Nord. Anche ai barcaioli e ai marinai piaceva cantarla. A quei tempi, lungo il corso del fiume Missouri, il traffico navale era intenso”. C’è una percezione tanto intensa quanto accurata: “In ogni canzone c’è distanza. La canzone non è distante, ma la distanza è uno dei suoi ingredienti, così come la presenza è un ingrediente di qualsiasi immagine grafica. È stato vero fin dalla prima canzone e dalla prima immagine. Tutte le canzoni parlano in modo implicito (e spesso esplicito di viaggi)”. La geografia è quella descritta dalla poetessa Moya Cannon, tradotta dallo stesso John Berger: “È sempre stato chi aveva poco altro da trasportare a portare le canzoni a Babilonia, al Mississippi, alcuni di loro possedevano meno di niente, non erano padroni nemmeno del proprio corpo, eppure, tre secoli dopo, i ritmi profondi dell’Africa, stivati nei loro cuori, nelle loro ossa, trasportano le canzoni del mondo”. Si chiama blues ed è la dimostrazione che “l’essenza delle canzoni non è vocale e neppure cerebrale, bensì organica”. Incredibile, ma vero.importante. La prova più concreta arriva dal vivo, con un performance di Yasmine Amdan, cantante e interprete libanese, a cui John Berger indirizza un particolarissima recensione: “Sembravi quasi priva di peso, asciutta, magra, come un’eterna viandante. Quando hai cominciato a cantare, tutto è cambiato. Tutto il tuo corpo, non più asciutto, era riempito dal suono, come una bottiglia può riempirsi fino a traboccarne. Cantavi in arabo, una lingua che non capisco, e tuttavia accoglievo ogni canzone come un’esperienza totale, non parziale”. Di nuovo, l’analisi delle canzoni in Confabulazioni, racconta che “una canzone, a differenza dei corpi in cui si impossessa, non è fissa nel tempo e nello spazio. Una canzone racconta un’esperienza passata. Quando la si canta, riempie il presente. Le storie fanno la stessa cosa. Le canzoni tuttavia hanno un’altra dimensione, che è tutta loro. Colmando il presente, una canzone spera di raggiungere un orecchio in ascolto da qualche parte in futuro. Si protende in avanti, sempre più avanti”. Non c’è altra direzione. L’ha capito benissimo Isabel Coixet, regista e sceneggiatrice spagnola, che scriveva: “Un giorno, John Berger ascolta John Coltrane che suona Everytime We Say Goodbye. Ma il brano non è la colonna sonora di amori perduti, passioni deluse. È la musica che ascoltano coloro che sono costretti ad abbandonare le loro case per via della guerra, della fame, delle persecuzioni. È la musica che culla i cadaveri di uomini, donne e bambini che affollato lo stretto di Gibilterra. È la musica che si ascolta in tutti i campi profughi dell’Africa. La musica che ascoltò, anni prima che Coltrane nascesse, quel milione di armeni che fu sterminato dal governo turco. La musica che non può soffocare il frastuono della guerra che è già cominciata. È una musica senza fine in un secolo di sparizioni. Gli occhi azzurri di John Berger, come quelli di un affascinante stregone, non sembrano chiudersi mai. La musica lo tiene sveglio. E lui noi”.
Lead Belly e Bessie Smith vengono richiamati come spettri ingombranti, poi John Berger ha scoperto la forza di un ritornello senza parole (che servono fino a un certo punto) con Il pescatore di Fabrizio De André per le vie di Roma e all’inizio di Festa di nozze, dopo le danze al suono del rebetiko, il protagonista canticchia Strange Days dei Doors. In Modi di vedere evoca Ziggy Marley, quando canta Justice e dice che “la giustizia continua a essere una preghiera condensata in una parola” ed è inevitabile approdare a Woody Guthrie in fondo a Il taccuino di Bento. Berger lo racconta così: “Il tema principale di Guthrie fu quel che la Grande depressione e le siccità della Dust Bowl, la conca di polvere, degli anni Trenta fecero ai piccoli coltivatori del Texas e dell’Oklahoma o agli abitanti del Dakota. Come persero le loro case gravate da ipoteca, come furono costretti a mettersi in strada con i loro fagotti, a saltare su treni o carri merci, e a raggiungere in qualche modo la California dove credevano ci fosse lavoro”. Il profilo è spontaneo: “Guthrie era un artista e un chitarrista carismatico e un improvvisatore naturale. Cantava vecchie canzoni e varie nuove canzoni da lui scritte su melodie del passato. Una di queste si intitola So Long, It’s Been Good To Know You. Addio, è stato bello conoscerti. Mette queste parole in bocca alle migliaia di persone che dalla città di Pampa nella piana occidentale del Texas si sono dovute mettere in strada durante la Depressione”. La ricostruzione è essenziale, d’accordo, ma trovate qualcuno che, oggi come oggi, abbia il coraggio di appellarsi a Woody Guthrie, o a Johnny Cash. “Certe volte è difficile trovare il tempo per dirti cosa significhi per me sei la rosa del mio cuore” canta in Rose of My Heart e, a dimostrazione che “le canzoni abbracciano il tempo della storia senza essere utopiche”, John Berger lo cita senza esitazioni: “Potevo avvolgermi nel bozzolo caldo di una canzone e andare ovunque: ero invincibile”.
Nella donazione del suo archivio alla British Library nel 2009, tra una moltitudine di taccuini, quaderni e appunti, c’erano anche la corrispondenza con Ken Loach, il materiale raccolto sul postino genialoide Ferdinand Cheval e il suo Palazzo ideale, il testo di Hey Jude e le note per una possibile collaborazione con Tom Waits. Per tutta una serie di ragioni, musicali e non, più che a Tom Waits avrei pensato a Joe Strummer, ma, suo ammiratore da tempo, John Berger ha citato Blood Money in Raccontaci anche le storie, all’inizio di Contro i nuovi tiranni (una lettura indispensabile, e il titolo dice già tutto) e Talking at the Same Time (da Bad As Me) in un saggio intitolato Pezzi d’argento e ha detto che Waltzing Matilda è tutto nell’insegnare qualcosa sull’elegia e sulla speranza. Tom Waits e John Berger hanno molto in comune: il retroterra blues, un modo di guardare, la cura delle immagini e dei dettagli e un linguaggio articolato e solido, sempre diretto nonché l’attenzione alle storie delle persone comuni, lavoratori, emigranti, disadattati, outsider in genere. In effetti John Berger voleva coinvolgere Tom Waits nella riduzione cinematografica della trilogia Into Their Labours dedicata alla cultura contadina che comprende i romanzi (bellissimi) Le tre vite di Lucie, Una volta in Europa e Lillà e Bandiera dove cantano per dimenticare, per ricordare, per festeggiare e per sopravvivere. Sollecitato, Tom Waits rispose con una lettera scritta a mano. La collaborazione non è andata in porto perché nel frattempo John Berger è scomparso, ma arrivati fin qui l’intenzione è più che sufficiente, perché le idee sono come le canzoni, non le ferma nessuno. (I contributi di Geoff Dyer, Colum McCann e Isabel Coixet sono tratti da Riga 32 dedicato a John Berger, a cura di Maria Nadotti, Marcos Y Marcos)
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