A.J. Croce That's Me
in the Bar (20th Anniversary Edition) [Compass
2015] www.ajcrocemusic.com
File Under: piano man
di
Gianfranco Callieri (27/11/2015)
Rovisto
con la memoria tra i dischi usciti e ascoltati nel 1995, e a parte i lavori di
qualche mostro sacro - Steve Earle, John Prine, Neil Young, Van Morrison, Emmylou
Harris, Bruce Springsteen - spesso più fresco e originale dei propri epigoni,
mi tornano in mente gli esordi di Wilco, Son Volt e Sparklehorse, i Blue Rodeo
del sesto capitolo, gli Smog di Bill Callahan e i Red House Painters di Mark Kozelek,
il rock in formato heartland del canadese Tom Cochrane, un album poco riuscito
di Bob Seger, il punk-rock à la Clash dei Rancid, il primo box dei Velvet, Elvis
Costello e Bill Frisell a quattro mani in un EP dal vivo, Soul Asylum e Goo Goo
Dolls all'indomani del grande successo, il ritorno (ostico) di Scott Walker, il
tracollo degli Energy Orchard e - posso dirlo? - il cofanetto retrospettivo di
Carly Simon, che ascoltai a ripetizione durante le festività natalizie. Di sicuro,
oltre a risultare come sempre sordo alle nuove sonorità, avrò scordato parecchi
esempi degni di nota (mi sovviene, per dire, il debutto di Jewel, ancora oggi
ottimo), ma anche questo elenco parziale di titoli, da solo, dovrebbe far capire
quanto magre fossero, all'epoca, le soddisfazioni di chi (al di là di hip-hop,
progressive-house, trip-hop, skate-punk, digital-hardcore, industrial-metal, dark-ambient
e altri generi contraddistinti da qualche temibile trattino) si ostinasse a cercare
canzoni e melodie.
Fu insomma inevitabile, in quell'anno, appassionarsi
all'opera seconda di Adrian James Croce, figlio del Jim Croce di Time
In A Bottle e della sua prima (e unica) moglie Ingrid, perché That's
Me In The Bar raccontava con senso dell'umorismo e note di pianoforte
d'altri tempi l'amore per Ray Charles nutrito da un ragazzo (probabilmente cresciuto
ascoltando Tom Waits, Randy Newman e Billy Joel) la cui voce, fatte le debite
proporzioni, sembrava però quella di un Dr John in erba - troppi riferimenti già
amati in passato per non volersene nutrire, con voracità, un'altra volta ancora.
In mezzo a tanti figli d'arte fagocitati e schiacciati dalle figure dei genitori,
A.J. faceva inoltre la figura di quello più risolto e sereno; d'altra parte, se
a produrne il primo album - l'omonimo A.J. Croce del 1993 - ci aveva pensato T-Bone
Burnett e se per la direzione di That's Me In The Bar si era scomodato un batterista
inestimabile quale Jim Keltner, portando con sé le chitarre di Stephen Bruton,
Waddy Watchel e Robben Ford, il basso "West-coast" di Bob Glaub, il violino di
Sid Page (Sly & The Family Stone), le tastiere di Bill Payne (Little Feat) e la
fisarmonica di David Hidalgo (Los Lobos), forse lo si doveva proprio all'affetto
da tutti costoro provato nei confronti della famiglia di Croce Jr. Il quale avrebbe
abbandonato in fretta il suono dei due suddetti album per recuperarlo poi, almeno
in parte, nel passabile Twelve Tales (2014), ultima tappa (in ordine cronologico)
di una carriera in cui il nostro ha sprecato troppe occasioni nel tentativo di
agguantare un suono più patinato e pop, senza peraltro mai più ritrovare la (piccola)
magia dei primi capitoli.
Rimasterizzato a dovere e ristampato dopo stagioni
di oblìo con l'aggiunta di una traccia in più dove il vocione crudo di A.J., inciso
ex-novo qualche mese fa, intona l'errebì caracollante di If You Want Me To
Stay (dallo Sly Stone di Fresh [1973]), facendosi accompagnare da una sezione
fiati e dal basso funky del vicino di casa Flea (i cui Red Hot Chili Peppers avevano
già "coperto" lo stesso brano sul loro Freaky Styley [1985]), That's Me In The
Bar continua a intrecciare in modo estremamente piacevole la New Orleans di Professor
Longhair e Allen Toussaint con i piano-bar delle metropoli della costa Est: da
un lato gli episodi tra blues e soul bianco, esemplificati alla grande in una
Nights Out On The Town che avrebbe fatto
impazzire Eddie Hinton, e dall'altro le serenate waitsiane alla I Meant What
I Said, Maybe I'm To Blame, Some People
Call It Love. A distanza di anni i momenti migliori sembrano quelli dove Croce
si decide a shakerare un po' gli stili, su tutti una She's
Waiting For Me da americano a Parigi (oppure, in virtù della fisa di
Hidalgo, da parigino in garçonnière sul Mississippi), e nondimeno la semplicità
e la pienezza tramite cui l'artista attraversa paesaggi urbani e istantanee dal
Sud degli Stati Uniti funzionano ancora senza interruzioni.
Non è (più)
il disco imperdibile che ci sembrò due decenni or sono, ma è comunque molto di
meglio di quanto sappiano offrire, oggi, certi tradizionalisti dell'ultim'ora,
spesso dotati di poca esperienza e succubi di un approccio scolastico al quale,
per fortuna, That's Me In The Bar non cede mai.