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Cracker
Alternative History: A Cracker Retrospective
[Cooking Vinyl 2024]

Sulla rete: crackersoul.com

File Under: beating around the bush


di Gianfranco Callieri (20/11/2024)

Tanto preziosi, per gli appassionati di cose rock, quanto trascurati dal grande pubblico, nei primi ’90 i Cracker hanno avuto il merito di tradurre la freakerie dei Camper Van Beethoven, da cui proveniva il cantante e compositore David Lowery (in ferrea alleanza con l’amico di gioventù Johnny Hickman), in un linguaggio classic-rock secco, essenziale e affilato, portato a compimento proprio quando il genere rischiava di scomparire. Non solo, insomma, il gruppo ha tenuto alto il vessillo di chitarre, rock & roll, boogie sudisti alla ZZ Top e affondi elettrici degni degli Heartbreakers di Tom Petty in un’epoca in cui, di tutto questo, sembrava non interessare più niente a nessuno, ma lo ha fatto con un’ironia e un senso dell’umorismo assolutamente impagabili, tanto più rimarchevoli (se ci guardiamo indietro) poiché manutentati con encomiabile costanza malgrado il bigottismo e l’ipocrisia della scena musicale, sovente abbarbicata a trasgressioni pianificate a tavolino, si stesse facendo soffocante.

Mentre tanti cantautori piagnucolavano, Lowery e Hickman si premuravano invece di sottolineare come il mondo avesse "bisogno di un nuovo folksinger come io ce l’ho di un colpo in testa: quello di cui il mondo ha bisogno è un nuovo Frank Sinatra che mi aiuti a portarti a letto" (così riconoscendo al repertorio dell’immarcescibile ol’ blue eyes le virtù afrodisiache in passato ipotizzate da molti ma sempre rimaste allo stadio di congettura); mentre l’allora dilagante movimento emo si crogiolava in stucchevoli rimpianti per gli amori perduti, i nostri si rivolgevano a una "ex" invitandola, vista la scarsa attitudine all’intima dazione mostrata in precedenza, a farsi da parte e a "non rompere le palle con le invocazioni su pace e amore"; mentre chi era alternativo negli ’80 pietiva, nel decennio seguente, contratti major, i due mollavano la Virgin senza rimpianti, dedicandole anzi un’invettiva dove sottolineavano come nessuno, tanto meno l’etichetta, fosse in grado "di succhiarselo da solo" ("oppure, siccome non siamo del tutto sessisti / di leccarsela da sola").

Anche solo per questi indiscutibili colpi di genio, i Cracker meriterebbero stima e ammirazione illimitate, e proprio per questo, davanti al nuovo, antologico Alternative History: A Cracker Retrospective sarà forse il caso, al di là dell’inevitabile entusiasmo per un repertorio sempre travolgente, di fare un po’ i conti della serva. Già, perché nonostante un mezzo capolavoro (Gentleman’s Blues, 1998) e diversi lavori eccelsi per lo più realizzati nei ’90, negli ultimi vent’anni i Cracker hanno pubblicato soltanto tre album di qualità altalenante, qualche live, un disco di cover e, soprattutto, una discreta quantità di «best of» sotto mentite spoglie, categoria quest’ultima nella quale potrebbero rientrare anche le auto-rivisitazioni in chiave bluegrass di O’ Cracker Where Art Thou? (2003), messo in piedi con i Leftover Salmon e qui citato per tre volte.

Che gli strascichi legali con Virgin e Concord non gli permettessero di utilizzare le versioni originali dei brani registrati fino al 2003, era risaputo: tant’è che la prima aveva già fatto uscire due raccolte, una autorizzata dal gruppo (Garage D’Or, 2000) e l’altra no (Get On With It, 2006), mentre per "riappropriarsi" delle proprie canzoni Lowery e Hickman le avevano incise ex-novo nel loro Greatest Hits Redux del 2006. Sicché, stante l’impossibilità di stilare una selezione multilabels, per raccontare 35 anni di carriera i Cracker hanno allestito una cronologia (non rigorosa) di 24 brani dove, al tirar delle somme, gli inediti veri e propri saranno una mezza dozzina (dieci se aggiungiamo le tracce dal vivo immortalate in Spagna, perché quelle tedesche erano già note).

Una nuova, malinconica e splendida versione della Sick Of Goodbyes scritta con Mark Linkous che fu, infatti, anche degli Sparklehorse e qui acquista tonalità folkie grazie a Brad Morgan e Jay Gonzales dei Drive-By Truckers, nonché una Almond Grove in quota R.E.M. prodotta, suonata e registrata da John Keane, cui vanno aggiunti il pop-rock in formato slacker di una Merry Christmas Emily ripensata da cima a fondo (complici Jeremy Lawton dei Big Head Todd & The Monsters e Megan Slankard), una King Of Bakersfield acustica (con fisarmonica) e l’antidiluviana Father Winter, strampalato intreccio tra Ray Davies e il country-folk risalente addirittura a prima della formazione del gruppo. Molto gradita la rara River Euphrates (dal vivo), che non è quella dei Pixies ma poco ci manca, fantastico il rifferama di una sempre elettrizzante Movie Star e semplicemente inarrivabile il power-pop dai tratti punkeggianti di una Don’t Fuck Me Up (With Peace And Love) a suo modo struggente. Dai concerti madrileni arrivano anche una Sunrise In The Land Of Milk & Honey rallentata e prosciugata, l’aguzzo folk-rock di I Want Everything e una furibonda, tagliente Seven Days.

Tutto il resto costituisce una piacevole passeggiata tra i ricordi, e se il vostro imbrattacarte non ha mai perso la testa per le parafrasi marcatamente rootsy dei brani - Teen Angst (What The World Needs Now), Low, The World Is Mine, Big Dipper - a suo tempo apparsi sul citato Greatest Hits Redux, né ha mai considerato l’esperimento con i Leftover Salmon qualcosa in più di una parentesi inessenziale, sfido chiunque a ostentare indifferenza davanti alle psicosi younghiane (nel senso di Neil) d’una rovente One Fine Day, o di fronte alla lezione di storia (del rock) e all’arsenale di contumelie contenuto in Ain’t Gonna Suck Itself, un sonoro "vaffanculo" articolato però con la grazia tex-mex del Sir Douglas Quintet.

In conclusione, non esaltarsi lungo il percorso di Alternative History: A Cracker Retrospective è praticamente impossibile e ciò, vista anche la trasformazione del sistema discografico in pedante e continua predica ai convertiti, potrebbe non solo bastare ma persino infiammare chi voglia un ripasso, chi di certi pezzi (in qualsiasi versione) non si stanca mai, chi rimpiange la vivacità delle stagioni passate (da un pezzo). Ma con tutto l’amore per i Cracker, i neofiti possono ascoltare quel che vogliono, gratis, sulle piattaforme di streaming; gli estimatori di vecchia data acquisteranno (l’ennesima) antologia irretiti dalla promessa di una manciata di inediti. Siamo proprio sicuri che Alternative History: A Cracker Retrospective, per definizione non idoneo all’ingrossamento delle fila dei primi (giacché le "storie alternative" le inseguono solo gli appassionati), fosse a questo punto l’opera attesa dai secondi? Io credo di no e, cosa più antipatica, credo lo sapessero benissimo anche i Cracker.