Sudato,
truccatissimo, scintillante, sfrenato e pirotecnico, al giorno
d’oggi Little Richard avrebbe tutte le carte in regola per
imporsi come icona queer. Naturalmente, se solo la
sfera LGBTQIA+ avesse quel senso dell’umorismo e dell’ironia
di cui sembra invece essere drammaticamente priva. Ciò nonostante,
l’interesse intorno al cantante della Georgia - prorompente
tenore dalle sfumature femminee che fu tra gli architetti
del primo, selvaggio rock and roll - non accenna a diminuire
nemmeno a quattro stagioni di distanza dalla sua scomparsa,
e infatti la californiana Omnivore programma in questo periodo
le ristampe in LP di The Rill Thing del 1970 (fortunatissimo
rientro in pista a base di funk e country-soul sudista), The
King Of Rock And Roll dell’anno dopo (altra cornucopia
di soul rockista), The Second Coming del 1972 (sottovalutata
benché esplosiva parata R&B culminante nell’indiavolato strumentale
Sanctified, Satisfied Toe-Tapper) e Lifetime Friend
del 1986 (dallo spirito religioso ma dal passo inequivocabilmente
r&r).
Ma se questi quattro dischi vengono rieditati senza variarne
il contenuto, l’antologico Settin’ The Woods On Fire:
The Reprise Rarities è stato invece concepito per
incuriosire sia gli appassionati di vecchia data sia i neofiti:
ai primi sarà magari sfuggito quando apparve, in versione
assai limitata, per il Record Store Day del 2020, ai secondi
darà l’occasione di approfondire un periodo non troppo noto,
ma assai interessante, di uno degli "urlatori" più
animaleschi e decadenti della fase aurorale del rock and roll.
Composta da 13 tracce nessuna delle quali completamente inedita
(tutte però sparpagliate su 5 o 6 dischi diversi, due dei
quali fuori catalogo da un pezzo), Settin’ The Woods On
Fire: The Reprise Rarities raccoglie stranezze, curiosità
e parafrasi alternative di brani risalenti all’epoca in cui
Richard (al secolo R. Wayne Penniman) si era legato alla Reprise
- l’etichetta fondata da Frank Sinatra - dopo tre anni di
inattività.
Da un certo punto in poi addirittura ricongiunto al produttore
Robert “Bumps” Blackwell, che ne aveva supervisionato i primi
successi targati Specialty, l’artista mostrò di non aver perso
un grammo della carica, del boogie ipercinetico e della ferocia
R&B di tre lustri prima. Qui, tra il thang alla James Brown
di Money Is e il limaccioso funky-swamp della strumentale
Mississippi, tra il country a tinte gospel di In
The Name (Version 4, Take 3) e la fucilata alla Frankie
Ford di una Open Up The Red Sea mandata in orbita dal
sax tenore di Lee Allen, Richard sfoggia un istrionismo teatrale
e travolgente che, mutatis mutandis, sembra quello delle prime
tragicommedie punk di Pedro Almodóvar. Del resto, sebbene
fosse "solo" la prima metà dei ’70, per l’inviperito
rockabilly funkeggiante di Sneak The Freak avrebbero
dato un braccio in tanti (e nel decennio successivo costoro
sarebbero raddoppiati).
Alleluia amici, lasciate che Little Richard, sacerdote del
ritmo, vi spettini capelli e contegno. Ne guadagnerete in
felicità.