Le avventure
discografiche dal vivo della New Shot Records si alimentano
in questa primavera di una nuova messe di pubblicazioni, delle
quali scegliamo in prima battuta di parlarvi di una coppia
di live che ci hanno particolarmente colpito per la loro qualità,
sia di incisione sonora, sia di contenuti. Non potrebbero
essere più distanti fra loro, come il giorno e la notte, due
songwriter divisi per stile musicale, storia personale, approccio
alla canzone, ma in questo caso semplicemente accostati per
l’intensità e la resa dei due concerti che sono stati aggiunti
all’ormai vasto catalogo della New Shot. Acustico, elegante,
intimo, quasi spirituale quello di Eric Andersen, che
ripercorre l’intera scaletta del suo riconosciuto capolavoro
del 1972, Blue River (e vi aggiunge altri cinque brani
finali tratti dal suo vasto repertorio); elettrico, torrido,
sorta di pietra grezza fatta di rock blues texano quello del
compianto Calvin Russell.
Nel primo caso ci troviamo a Tokyo nel 2012, in occasione
del tour per il quarantennale del citato album, il più celebrato,
certamente uno dei più noti ed essenziali della lunga carriera
di Andersen: Blue
River rappresenta da una parte un momento irripetibile
di una vicenda artistica complicata e sfortunata a seconda
dei passaggi, dall’altra un simbolo di un’intera stagione
di folksinger post-Dylan (anche se l’accostamento potrebbe
giustamente irritare Andersen e chi come lui ha dovuto spesso
rivendicare una propria legittima identità musicale), allor
quando la stagione dei rimpianti e del ritiro aveva colto
quella generazione, dopo i sogni e gli ideali, alla ricerca
di sentimenti più personali. La formula con la quale Blue
River e i suoi singoli episodi vengono messi in scena
è quella del trio acustico, Andersen al piano, chitarra e
armonica, la compagna Inge alle armonie vocali, e non ultimo
Michele Gazich al violino, spalla ideale per tutto
il concerto attarverso il lirismo e la delicatezza del suo
strumento.
I nove brani dell’album non sono riproposti pedissequamente
seguendo la sequenza originale, e il mischiare le sensazioni
di ciascuna composizione è forse la scelta più intelligente
per dare nuovo respiro alle ballate di Andersen. Queste ultime
conservano i loro tratti fragili e poetici, quel loro peregrinare
romantico che conduce direttamente al centro dell’anima dell’artista:
nella prima parte con una presenza più manifesta del pianoforte
(Blue River, Pearl’s Goodtime Blues, Wind
and Sand, la magnifica Round the Bend), poi via
viasciogliendosi nell’abbraccio folk della chitarra acustica,
in dialogo costante con il violino di Gazich, sempre un passo
di fianco e mai sovrastante rispetto alla conduzione principale
dello stesso Andersen, la cui voce è un piccolo miracolo nel
miracolo, conservata nel suo gesto intimo e confessionale.
Ne siamo prova le versioni del classico More Often than
Not (unico brano che in Blue River non era firmato
da Andersen, bensì dal collega David
Wiffen, presente anch’egli nel catalogo della New Shot
con), Sheila e Is It Really Love At All, quest’ultima
a concludere idealmente la celebrazione di Blue River dal
vivo in Giappone, anche se, come anticipato, lo show si estende
per altri cinque episodi, tra i quali vale la pena citare
almeno le due perle finali, testimonianze del primo giovane
Eric Andersen al Village, Violets of Dawn e la potente
Thirsty Boots.
Blue
River (Live in Tokyo)
Round
the Bend (Live in Tokyo)
Cambio di scena
e di prospettiva sonora, come si diceva, per il ringhioso
Calvin Russell di Equal Love, rovente concerto
dell’aprile del 1997 andato in scena presso la Blues House
di Milano, storico e purtroppo scomparso locale cittadino
che in quegli anni ha spesso ospitato personaggi del circuito
blues rock americano. Rientra perfettamente nella descrizione
lo scavato e segaligno texano di Austin, scomparso nel 2011
a sessantadue anni dopo una vita dura e intensa, fatta di
eccessi personali, vagabondaggi e guai con la legge che ne
hanno in qualche modo amplificato la figura di “outlaw”, sebbene
tutto l’affetto dimostrato nei suoi confronti fosse meritato
per la qualità grezza, eppure vera e romantica della sua musica
dagli orizzonti sabbiosi e avvolta nel richiamo della strada.
La prova di tutto ciò è colta magistalmente in queste sedici
tracce dal vivo con un quintetto a fare scintille alle sue
spalle, sezione ritmica nelle mani di Jim Starboard (batteria)
e Scott Garber (basso), mentre sotto i riflettori finiscono
le chitarre soliste di Spencer Jarmon (eroe locale di Austin,
scomparso anch’egli pochi anni fa) e le tastiere di Jim Panek.
Sospinto da questa formazione in gran spolvero, Russell, chitarra
ritmica e voce arrochita come richiede il protocollo, attinge
sia dal contemporaneo, omonimo Calvin Russell (al tempo
pubblicato per la francese Last Call), con la presenza in
scaletta di Desperation, Let The Music Play,
I Want To Change To World, Nothin' Can Save Me,
Time Flies e della cover di Mr. Mudd And Mr. Gold
a firma Townes Van Zandt, sia da alcuni punti fermi della
sua produzione precedente, come lo storico Sounds From
The Fourth World (da lì provengono, per esempio, Last
Night, One Meat Ball e You Don’t Know) e
Dream of the Dog (Trouble e il finale di We
Can Live Together, scritta insieme a un altro rinnegato
texano, Jon Dee Graham).
È musica che affonda da una parte nella tradizione nobile
dei troubadour texani (non a caso il concerto si apre con
un’altra cover del mentore Townes Van Zandt, Rake)
e dall’altra nella ruvida scorza di un rock’n’roll da bettole
e honky tonk, con quella matrice blues elettrica che fa da
collante (un modello nell’altra cover presente, il classico
di Bobby Womack It’s All Over Now). È lo stesso Texas
che è appartenuto, in declinazioni diverse, agli ZZ Top, a
Johnny Winter, ai fratelli Vaughan o a Joe Ely: Calvin
Russell vi aggiunge una poetica “fuorilegge” volutamente
non raffinata, un canto ruvido e sinceramente marginale rispetto
all’american dream, che per il musicista è stato semmai un
incumbo e una lotta continua. Non a caso forse la sua storia
ha affascinato e raccolto consensi, come spesso è accaduto
per personaggi come lui, più in Europa che non in madre patria.
Equal Love, con la sua impetuosa carica rock’n’roll da
bar band, ne rappresenta l’ennesima conferma, qui ulteriormente
valorizzata dal pregio della registrazione, candindando seriamente
il disco a migliore testimonianza live della sua carriera.