La storia musicale di Lee Fardon,
oscura, zoppiccante, ingiustamente relegata al ruolo che “spetta”
quasi di diritto agli outsider posti ai margini del rock’n’roll,
sarà per sempre legata ai suoi esordi, a quell’accoppiata
di album, rimasti un po’ nel cuore degli appassionati, e che
corrispondono ai titoli di Stories of Adventure e
The God Given Right. Ne accennavamo anche in occasione
della precedente pubblicazione della New Shot dedicata a Fardon,
l’album dal vivo Mayday.
The Live Recording, risalente al tour italiano del 2008
e che metteva in luce canzoni vecchie e nuove, testimoniando
come il songwriter inglese avesse arricchito il suo canzoniere
nell’indifferenza generale, provando a più riprese a riemergere
artisticamente.
La nuova uscita di On the Up Beat è l’ennesima
dimostrazione di affetto dell’etichetta italiana, solitamente
occupata, come sappiamo, ad offrire rare incisioni live, ma
in questo caso sensibile a “ripescare” un album di studio
di Lee Fardon e purtroppo sbrigativamente finito nel dimenticatoio
dopo la sua iniziale pubblicazione indipendente nel 2021.
Con una nuova copertina, un’opera di remix curata dallo stesso
Renato Bottani della New Shot records e l’aggiunta di una
bonus track, una Journey’s End dalla pulsioni soul
rock e attraversata da un organo dai profumi sixties, On
the Up Beat è una piccola sorpresa anche per chi vi scrive
e aveva colpevolmente ignorato il disco al tempo, dimostrazione
ulteriore di come questo autore non abbia più goduto delle
meritate attenzioni di inizio carriera.
Certo, non tutta la sua produzione successiva, peraltro molto
parca e spesso eclissatasi nell’indipendenza assoluta, ha
saputo mantenere le promesse iniziali, ma la prima impressione
è che On the Up Beat si collochi tra gli oggetti più
personali della sua discografia, il classico album della maturità
che differisce dal suono più affilato di gioventù per abbracciare
una forma di ballata folk rock che ingloba qualche respiro
celtic soul, alcune vibrazioni americana e blues, in generale
un approccio più intimo che esalta l’anima dell’autore.
Si parte con la luminosa dedica di Bob’s
Old Mine e si entra in contatto con i temi sulla
famiglia, l’amore e i ricordi, che ravvivano giustamente un
disco scritto in età saggia e adulta: la band suona brillante
e fantasiosa quanto basta per dipingere ogni traccia, le chitarre
di Steve Dow (e Tony Wilson) restituiscono un limpido timbro,
vagamente “alla Mark Knopfler”, e la seconda voce femminile
di Hannah Robinson è un’ideale spalla per dare colore al tono
più crudo (forse limitato, eppure di peculiare fascino) dello
stesso Fardon. Accade per esempio nel sapore blues zingaresco
un po’ mittleruopeo di Too Hot to Hoover, melodia già
sentita, ma efficace o nella successiva Two
Rooms and a Garden, ballata che ricorda alcune
uscite del collega Dirk Hamilton... Che in fondo è come dire
“tutti figli di Van Morrison”, e ne siano una riprova i sei
minuti di Postcards from Hastings,
tra i passaggi più emozionanti dell’album grazie anche alla
presenza del violino di Dick Cadbury.
Diverse le tracce che lasciano fluire le emozioni dell’uomo
Lee Fardon e non si preoccupano di “dilungarsi” seguendo il
gesto del momento, tra cui gli otto minuti di una suadente
16000 Nights e i sei di una The Boat Trip più
intima e raffinata, intrecciando acustica, piano e i contrappunti
jazzy della tromba di Tony Waller. Senza voler apparire eccessivi
e tanto meno convertire un pubblico che magari di Fardon conosce
poco o nulla, ma pare davvero di poter affermare che in questa
occasione la riscoperta di On the Up Beat sia stata
un’opera meritevole di giustizia nei confronti del musicista.