Tanto preziosi,
per gli appassionati di cose rock, quanto trascurati dal grande
pubblico, nei primi ’90 i Cracker hanno avuto il merito
di tradurre la freakerie dei Camper Van Beethoven, da cui
proveniva il cantante e compositore David Lowery (in ferrea
alleanza con l’amico di gioventù Johnny Hickman), in un linguaggio
classic-rock secco, essenziale e affilato, portato a compimento
proprio quando il genere rischiava di scomparire. Non solo,
insomma, il gruppo ha tenuto alto il vessillo di chitarre,
rock & roll, boogie sudisti alla ZZ Top e affondi elettrici
degni degli Heartbreakers di Tom Petty in un’epoca in cui,
di tutto questo, sembrava non interessare più niente a nessuno,
ma lo ha fatto con un’ironia e un senso dell’umorismo assolutamente
impagabili, tanto più rimarchevoli (se ci guardiamo indietro)
poiché manutentati con encomiabile costanza malgrado il bigottismo
e l’ipocrisia della scena musicale, sovente abbarbicata a
trasgressioni pianificate a tavolino, si stesse facendo soffocante.
Mentre tanti cantautori piagnucolavano, Lowery e Hickman si
premuravano invece di sottolineare come il mondo avesse "bisogno
di un nuovo folksinger come io ce l’ho di un colpo in testa:
quello di cui il mondo ha bisogno è un nuovo Frank Sinatra
che mi aiuti a portarti a letto" (così riconoscendo
al repertorio dell’immarcescibile ol’ blue eyes le virtù afrodisiache
in passato ipotizzate da molti ma sempre rimaste allo stadio
di congettura); mentre l’allora dilagante movimento emo si
crogiolava in stucchevoli rimpianti per gli amori perduti,
i nostri si rivolgevano a una "ex" invitandola,
vista la scarsa attitudine all’intima dazione mostrata in
precedenza, a farsi da parte e a "non rompere le palle
con le invocazioni su pace e amore"; mentre chi era alternativo
negli ’80 pietiva, nel decennio seguente, contratti major,
i due mollavano la Virgin senza rimpianti, dedicandole anzi
un’invettiva dove sottolineavano come nessuno, tanto meno
l’etichetta, fosse in grado "di succhiarselo da solo"
("oppure, siccome non siamo del tutto sessisti / di
leccarsela da sola").
Anche solo per questi indiscutibili colpi di genio, i Cracker
meriterebbero stima e ammirazione illimitate, e proprio per
questo, davanti al nuovo, antologico Alternative History:
A Cracker Retrospective sarà forse il caso, al di
là dell’inevitabile entusiasmo per un repertorio sempre travolgente,
di fare un po’ i conti della serva. Già, perché nonostante
un mezzo capolavoro (Gentleman’s Blues, 1998) e diversi
lavori eccelsi per lo più realizzati nei ’90, negli ultimi
vent’anni i Cracker hanno pubblicato soltanto tre album di
qualità altalenante, qualche live, un disco di cover e, soprattutto,
una discreta quantità di «best of» sotto mentite spoglie,
categoria quest’ultima nella quale potrebbero rientrare anche
le auto-rivisitazioni in chiave bluegrass di O’ Cracker
Where Art Thou? (2003), messo in piedi con i Leftover
Salmon e qui citato per tre volte.
Che gli strascichi legali con Virgin e Concord non gli permettessero
di utilizzare le versioni originali dei brani registrati fino
al 2003, era risaputo: tant’è che la prima aveva già fatto
uscire due raccolte, una autorizzata dal gruppo (Garage
D’Or, 2000) e l’altra no (Get On With It, 2006),
mentre per "riappropriarsi" delle proprie canzoni
Lowery e Hickman le avevano incise ex-novo nel loro Greatest
Hits Redux del 2006. Sicché, stante l’impossibilità di
stilare una selezione multilabels, per raccontare 35 anni
di carriera i Cracker hanno allestito una cronologia (non
rigorosa) di 24 brani dove, al tirar delle somme, gli inediti
veri e propri saranno una mezza dozzina (dieci se aggiungiamo
le tracce dal vivo immortalate in Spagna, perché quelle tedesche
erano già note).
Una nuova, malinconica e splendida versione
della Sick Of Goodbyes
scritta con Mark Linkous che fu, infatti, anche degli Sparklehorse
e qui acquista tonalità folkie grazie a Brad Morgan e Jay
Gonzales dei Drive-By Truckers, nonché una Almond Grove
in quota R.E.M. prodotta, suonata e registrata da John
Keane, cui vanno aggiunti il pop-rock in formato slacker di
una Merry Christmas Emily ripensata da cima a fondo
(complici Jeremy Lawton dei Big Head Todd & The Monsters e
Megan Slankard), una King Of Bakersfield acustica (con
fisarmonica) e l’antidiluviana Father Winter, strampalato
intreccio tra Ray Davies e il country-folk risalente addirittura
a prima della formazione del gruppo. Molto gradita la rara
River Euphrates (dal vivo),
che non è quella dei Pixies ma poco ci manca, fantastico il
rifferama di una sempre elettrizzante Movie Star e
semplicemente inarrivabile il power-pop dai tratti punkeggianti
di una Don’t Fuck Me Up (With Peace
And Love) a suo modo struggente. Dai concerti madrileni
arrivano anche una Sunrise In The Land Of Milk & Honey
rallentata e prosciugata, l’aguzzo folk-rock di I Want
Everything e una furibonda, tagliente Seven
Days.
Tutto il resto costituisce una piacevole passeggiata tra i
ricordi, e se il vostro imbrattacarte non ha mai perso la
testa per le parafrasi marcatamente rootsy dei brani - Teen
Angst (What The World Needs Now), Low, The World
Is Mine, Big Dipper - a suo tempo apparsi sul citato
Greatest Hits Redux, né ha mai considerato l’esperimento
con i Leftover Salmon qualcosa in più di una parentesi inessenziale,
sfido chiunque a ostentare indifferenza davanti alle psicosi
younghiane (nel senso di Neil) d’una rovente One
Fine Day, o di fronte alla lezione di storia (del
rock) e all’arsenale di contumelie contenuto in Ain’t Gonna
Suck Itself, un sonoro "vaffanculo" articolato
però con la grazia tex-mex del Sir Douglas Quintet.
In conclusione, non esaltarsi lungo il percorso di Alternative
History: A Cracker Retrospective è praticamente impossibile
e ciò, vista anche la trasformazione del sistema discografico
in pedante e continua predica ai convertiti, potrebbe non
solo bastare ma persino infiammare chi voglia un ripasso,
chi di certi pezzi (in qualsiasi versione) non si stanca mai,
chi rimpiange la vivacità delle stagioni passate (da un pezzo).
Ma con tutto l’amore per i Cracker, i neofiti possono ascoltare
quel che vogliono, gratis, sulle piattaforme di streaming;
gli estimatori di vecchia data acquisteranno (l’ennesima)
antologia irretiti dalla promessa di una manciata di inediti.
Siamo proprio sicuri che Alternative History: A Cracker
Retrospective, per definizione non idoneo all’ingrossamento
delle fila dei primi (giacché le "storie alternative"
le inseguono solo gli appassionati), fosse a questo punto
l’opera attesa dai secondi? Io credo di no e, cosa più antipatica,
credo lo sapessero benissimo anche i Cracker.