![]() ![]() |
[Home] | |
|
Ascoltando
anche una sola delle 44 canzoni contenute in questa antologia (sebbene usare questa
espressione per un gruppo con due soli album all'attivo sia forse un po' improprio),
viene da chiedersi come fosse possibile, per dei musicisti operanti nelle strade
grigie e sottoproletarie di Balham (quartiere operaio della Londra meridionale
dei '70), suonare non tanto così pieni di senso dell'umorismo, perché l'ironia
(in particolare la sua variante più acida) gli inglesi la conoscono bene, quanto
spensierati, giocosi e soprattutto americani com'erano i Chilli Willi & The
Red Hot Peppers, ragione sociale nata dal contrasto tra l'omonimo pinguino
dei cartoni animati e le focose proprietà alimentari dei peperoncini rossi. La
spiegazione, però, è presto data: il chitarrista Martin Stone (1946-2016),
uno dei due membri fondatori del gruppo assieme a Philip C. Lithman (1949-1987),
aveva trascorso qualche stagione nella California del decennio precedente, assorbendone
gli umori (musicali e sociali), e poi rielaborandoli alla luce di un disincanto
tipicamente britannico, fatto di sarcasmo, inesausta capacità di ridere su se
stessi e allergia ai luoghi comuni.
Trasformatisi
in quartetto, nonché tutelati dai continui passaggi radiofonici di John Peel,
i nostri incisero un secondo album - Bongos Over Balham (1974), uscito
su Mooncrest, la sussidiaria "rock" della Trojan, più rifinito ma non meno spiritoso
del precedente - prima di sciogliersi in fretta e furia: Stone si sarebbe accasato
presso la corte dei Pink Fairies e avrebbe coltivato la propria passione per l'antiquariato
librario, Lithman entrò nell'entourage dei Residents e (sotto lo pseudonimo di
Snakefinger) avrebbe infiammato la scena underground di San Francisco tramite
nenie elettroniche minimali e dadaiste, il batterista Pete Thomas inaugurò un
fruttuoso sodalizio con Elvis Costello e il bassista Paul Riley sarebbe invece
diventato uno stimato produttore. La singolarità dei rispettivi percorsi solisti
dei Chilli Willi fornisce la misura di come, dietro la facciata in apparenza semplice
e accessibile, i quattro fossero invero artisti eclettici e poco incasellabili,
catalogati alla voce quasi punkeggiante del pub-rock più per assenza di paralleli
plausibili che per effettive affinità di stile. Dandy delle periferie industriali
con una spiccata vocazione per il vaudeville, Stone e Lithman potevano altresì
sembrare degli epigoni di Commander Cody sospesi tra parodia e vena amatoriale,
magari filtrati attraverso lo sguardo velenoso di un Ray Davies.
|