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The Chills
di Gianfranco Calleri (13/11/2020) Per quale motivo, nel 2020,
il nome del neozelandese Martin Phillips, e cioè del singolo membro
al timone del progetto The Chills dal lontano 1980, continua
a risuonare con rispetto e interesse tra gli appassionati di musica,
malgrado costui abbia di fatto registrato meno di otto album in oltre
vent’anni di carriera? L’interrogativo sembra ancor più legittimo se
si pensa a come il gruppo, appunto istituito all’inizio degli 80, abbia
ai tempi sfornato, prima di esordire su 33 giri (accadde solo nel 1987),
una trafila di singoli distribuiti alla meno peggio; e sia diventato,
sì, un piccolo fenomeno in patria, rimanendo però confinato, nel vecchio
continente o negli Stati Uniti, al rango del “culto” per maniaci del
settore. Siccome, però, si parla di un settore molto particolare e molto
venerato, ossia quello del jingle-jangle derivato dai giri armonici
di Byrds e Beatles (e in questo caso sfociato in un riconoscibilissimo
post-punk con tracce di R.E.M., Big Star e Undertones), si capisce perché
l’adorazione (sotterranea) per la scrittura pur non troppo prolifica
di Phillips abbia solcato gli oceani fino a trasmettere la propria influenza
su Pavement o Mudhoney, Cat Power o Superchunk. Nessuno stupore, del resto:
il breviario di erudizione pop qui sfoderato da Phillips mettendosi
all’inseguimento di grandi irregolari della melodia quali Syd Barrett,
Scott Walker o Paddy McAloon, evocati dalle eteree tastiere di Andrew
Todd (spesso responsabile degli arrangiamenti) e dal basso punkeggiante
di Justin Harwood, possedeva e possiede ancora le caratteristiche di
un trattato definitivo sull’arte di suonare in contemporanea eleganti
e sferzanti, raccolti e trascinanti, accessibili e stratificati. Ascoltate
per esempio le frustate di The Oncoming Day e Familiarity
Breeds Contempt, da qualche parte tra Buzzcocks e Aztec Camera,
oppure l’ineffabile delicatezza folk-rock di Dont’ Be - Memory
(con echi di Mike Scott), la celestiale, nostalgica, minimalista ipnosi
di Effloresce And Deliquesce, gli impalpabili tocchi chitarristici
di Part Past, Part Fiction e il desolato passo di marcia della
title-track, e dite se in questo clamoroso equilibrio tra sussurri e
ruggiti, non c’è uno straordinario rispetto per la forza curativa della
musica, per la sua capacità di sollevarci, per la sua facoltà di sintetizzare
mondi, sentimenti, ricordi e speranze nello spazio di un inciso o di
una strofa. Tra l’altro, Submarine Bells convinceva senza esitazioni
anche in virtù della sua natura dimessa, dando l’impressione di elargire
talento senza esibirne la stoffa, senza dare a vedere l’ambizione di
farlo notare.
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