Nella
turbolenta carriera di Steve Earle - spesso e voletieri condotta sull'orlo
di un precipizio prima umano e poi artistico, sempre e comunque dalla parte selvaggia
della strada - è facile individuare alcuni punti di svolta, scatti repentini che
ne hanno sancito la figura di autentico ribelle senza causa dell'american music.
Copperhead Road non riceve dunque per puro caso il trattamento speciale
di una deluxe edition, pratica che conoscerà anche i suoi abusi in questo
strano periodo di confusione discografica, ma che altrettanto legittimamente consacra
l'importanza del disco in questione nell'evoluzione dello stesso autore. Proprio
di scatto artistico stiamo parlando, istante cruciale in cui Steve Earle alza
i pugni, chiude il sipario sulla Nashville che lo aveva accolto come un nuovo
salvatore "neo-tradiziolista" agli esordi di Guitar Town e sfonda le
"linee nemiche" per abbracciare senza tentennamenti il suo volto più elettrico.
Quasi cinquecentomila copie vendute al tempo, adottato da un pubblico e da una
specifica critica rock che fino a quel momento era rimasta indecisa sul personaggio,
Copperhead Road risuona ancora oggi come un tuono lungo il tragitto del cantautore
texano: uno schiaffo elettrico dove l'anima da biker rozzo e spesso insofferente
volta le spalle alle definizioni del "nuovo country", nient'altro che marketing
studiato a tavolino, per imbracciare una corsa folle, quella che lo porterà nel
giro di due anni alle ombre fosche di Hard Way, agli scontri con la stessa MCA
e infine alla dipendenza tragica dalle droghe.
Nel mentre la scorza
ruvida di Snake Oil,
la schiettezza di intenti di Back to the Wall,
l'epica outlaw di Devil's Right Hand, così
come le speculari, romantiche e agrodolci Even When I'm
Blue e Nothing but a Child risuonano
oggi più che mai il vero turning point del prima ideale scorcio di carriera di
Steve Earle. È la sua crescita in pubblico, la maturità acciuffata dopo la sfacciataggine
giovanile di Guitar Town e del coevo Ext O. I Dukes, la sua storica backing
band, sono alla sfascio, Bucky Baxter e Ken Moore reggono ancora per poco, mentre
Steve vola a Memphis per registrare il disco imbarcando nuovi musicisti e aprendosi
alle collaborazioni con Tellirude (il gruppo newgrass di Sam Bush)
e Pogues (nella commovente canzone anti-militarista Johnny
Come Lately), spruzzando di hillbilly e fragranze irish un disco in
gran parte votato al rock'n'roll. Copperhead Road,
il brano, è un inno che ruggisce negli anni delle "Reaganomics", fra fabbriche
in chiusura, agricoltori in rivolta e reduci sempre più schiacciati dai loro incubi.
Tutto il disco sembra abbracciare la filosofia di quello che in molti
allora chiameranno "heartland rock", onesto con se stesso e pronto alle barricate,
unendosi idealmente sia alla delusione che alla lotta racchiusi nelle opere dei
colleghi John Mellencamp e Bruce Springsteen. Copperhead Road sparge infatti lungo
i suoi solchi i semi della disillusione, raccontando di vite alla deriva, errori
di gioventù, rimorsi ma anche voglia di riscatto. Non è un caso dunque che alla
tournè incendiaria che farà seguito, mediamente tre ore di show a sera, Steve
Earle scoverà un punto di incontro con il songbook di Springsteen. Sintomatico
che a dividere idealmente il secondo cd di questa edizione deluxe venga collocata
una versione rispettosa e appassionata di Nebraska
(al tempo spesso accompagnata da State Trooper) colta in quel periodo. I restanti
sedici episodi sono catturati da due differenti esibizioni, prima e dopo il ciclone
Copperhead Road. Undici i brani in scaletta tratti dallo show del 1987 a Raleigh,
North Carolina: spuntano le prime bozze di Johnny Come Lately e Devil's Right
hand, attorniate da gran parte del materiale contenuto nei primi due lavori di
Steve.
I Dukes hanno ancora in bocca il sapore della polvere texana,
un rock delle radici imbevuto di country fuorilegge (anche una cover di Wheels
di Gram Parsons) e qualche accento rockabilly (My baby
Workships Me, I Love You too Much)
e honky tonk (Week of Living Dangerously)
che Earle sembra portarsi appresso come un lascito artistico dei suoi primi amori
musicali. Le cinque successive tracce raccolte da una esibizione a Calgary del
1989 paiono già cambiare le carte in tavola, lanciandosi verso quel suono rock
potente che sarà poi colto nel live ufficiale Shut Up and Die Like an Aviator.
Qui fa anche la sua prima comparsa la vivida riedizione di Dead
Flowers degli Stones, rallentata e sofferta grazie alla voce aspra
del protagonista, già segnato forse dagli abusi. La possibilità dunque di cogliere
Steve Earle dal vivo in quegli anni di strepitosa consapevolezza artistica è un
buon incentivo per i vecchi fan: le 24 pagine dle booklet con le note di Chris
Morris e le numerose foto sono infine l'invito per chi non avesse mai preso
in considerazione Copperhead Road, disco "maudit" per eccellenza
nella discografia del nostro. (Fabio Cerbone)