Un altro “album perduto” che rispunta dalle nebbie
del folk rock più sotterraneo della fine degli anni Sessanta, South
Atlantic Blues rimette al centro la figura di culto di Scott
Fagan, musicista che aveva vissuto qualche anno fa un ritorno di
interesse intorno alla sua travagliata storia personale, soprattutto
dopo la rivelazione di essere il padre biologico di Stephin Merritt,
mente e anima dei Magnetic Fields. L’incontro fra i due avvenne soltanto
nel 2013, ispirando a Merritt anche una canzone, e dando quindi allo
stesso Fagan quelle attenzioni sulla stampa specializzata che fino a
quel momento erano rimaste appannaggio di pochi adepti.
Già oggetto di una ristampa rimasterizzata in cd nel 2015 per opera
della Saint Cecilia Knows, l’album è riproposto oggi in vinile nella
sua grafica originale dalla Earth Recordings, con un ritratto interno
curato dal fotografo Joel Brodsky. Senza aggiungere tracce inedite (era
possibile recuperare in via digitale alcune demo acustiche con la precedente
edizione), ma semplicemente riproponendo un “classico dimenticato”,
l’iniziativa si collega al fatto che Scott Fagan tornerà presto
in attività con un annunciato nuovo disco, la colonna sonora di Soon,
un musical scritto a suo tempo (1971) e messo in scena a Broadway ma
mai realizzato in lp, nonché un documentario sulla sua vita, Soon:
the Story of Scott Fagan, curato dal regista Marah Strauch.
È proprio stabilire la natura di “classico” di South Atlantic
Blues che forse non rende un grande favore allo stesso Fagan,
destinato all’oscurità anche per dolorose scelte personali (inciderà
un altro disco ufficiale per la RCA nel 1975 prima di sparire definitivamente
dalle scene) e probabilmente per aspettative troppo alte di discografici
e produttori al tempo coinvolti, oltre a una concorrenza spietata, in
quel 1968, allor quando il disco si dovette confrontare con il vento
della rivoluzione underground che lo circondava da tutte le parti. Fagan
aveva vissuto una stagione in esilio da ragazzo, cresciuto insieme ai
fratelli tra le Isole Vergini e Puerto Rico in una famiglia di genitori
separati, il padre musicista jazz e la madre ballerina classica, prima
di fare ritorno a New York e affacciarsi sulla vivace scena dei folksinger
del Greenwich Village.
È da quelle parti che viene notato da talent scout
del lignaggio di Doc Pomus e Mort Shuman, per finire poi sotto le cure
di Bert Bens della Bang Records e infine, grazie all’interessamento
del manager Jerry Schoenbaum, nella scuderia prestigiosa della ATCO/Atlantic.
Sarà quest’ultima a imprimere il marchio sull’esordio di South Atlantic
Blues, dieci brani originali passati in fretta nell’oblio nonostante
un suono che esprimeva la totale immersione nello “spirito dei tempi”
da tramonto dei sixties, con la produzione firmata da Elmer Jared Gordon
(Buffy Sainte Marie , Pearls Before Swine) e gli arrangiamenti per archi
e fiati curati da Horace Ott (Nina Simone, Sam Cooke, The Shirelles).
Risentiti adesso questi brani sembrano distanti da alcune definizioni,
su cui la stessa Earth recordings pare indugiare, che vorrebbero descrivere
il suono di Fagan come un pezzo di quella sbornia psych-folk che montava
all’epoca. Sebbene le suggestioni siano certamente presenti, soprattutto
nel fluttuare dell’apripista In My Head,
nei deragliamenti di Tenement Hall o nel finale un po’ barocco
di Madame-Moiselle, a colpire sono in particolare le orchestrazioni
pop di Horace Ott in Nickel and Dimes e Crying, e così
altrettanto le pulsioni r&b della sezione fiati che fanno breccia in
Nothing But Blue, il tutto avvolto
in una commistione tra scrittura folk ed elementi soul che nel caso
di Fagan si allarga inevitabilmente anche agli influssi caraibici della
sua esistenza, come rivela più di tutte la traccia intitolata The
Carnival is Ended.
Ciclo di canzoni che affonda nella biografia stessa di Scott Fagan,
a partire dai suoi anni di soggiorno alle Isole Vergini, South Atlantic
Blues raccoglie ricordi famigliari, dettagli di povertà e sofferenza
ma anche di un amore emotivo, restituendo valore alle liriche un po’
sfuggenti anche quando la voce, un curioso mix fra il David Bowie giovanile
e i mille folksinger di quella fine decennio, tremula e spinta forse
all’eccesso dalla produzione in primo piano, non sembra in grado di
reggere sempre la forza delle canzoni stesse. E qui dunque resta l’impressione
che South Atlantic Blues (compreso il brano omonimo, una sorta
di Van Morrison apocrifo, ma senza la densità e la grinta del nordirlandese)
sia non tanto un’opera irrinunciabile al quale restituire un po’ di
giustizia, semmai una rarità da riscoprire con il curioso atteggiamento
di chi ama qualsiasi oggetto discografico la febbre dell'oro dei 60s
continua a generare.