Sono praticamente certo
che se prendessimo dieci fan dei Giant Sand e chiedessimo loro
di indicare il disco migliore della sigla, avremmo dieci risposte diverse.
Nella loro lunga e copiosa carriera, ancor più corposa se si considerano
tutti i progetti di Howe Gelb e si aggiunge l’epopea dei Calexico, nata
comunque come costola del gruppo (un raro caso di side-project che diventa
più popolare della sua origine), di dischi belli e importanti ne hanno
fatti tanti, e anche in epoche molto diverse, se è vero che anche in
questi anni Dieci hanno detto la loro con il bel Tucson del 2012.
Sicuramente però qualcuno citerà Glum, il disco che nel
1994 in qualche modo riportò in auge la sigla dopo un periodo in cui
anche la critica li stava un po’ perdendo di vista, travolti dalle nuove
ondate di rock portati in dote dagli anni 90. E sì che solo due anni
prima l’album Center Of Universe aveva tentato di coniugare il
loro stile (si usa da sempre definirlo “desertico”, per quel che può
significare) con i nuovi attriti elettrici e sperimentali che arrivavano
dall’affiorare del mondo alternative degli 80, ormai tutti accasati
presso qualche major a raccogliere finalmente quanto seminato. Quel
disco per molti è il loro vero capolavoro oscuro, ma fu anche un mezzo
flop che li portò a fare un passo indietro con il più convenzionale
Purge e Slouch del 1993. Con Glum però Gelb compie il
coraggioso atto di affidarsi ad un produttore come Malcolm Burn,
uno che stava vivendo un momento di grazia dopo anni passati a fare
l’aiutante di Daniel Lanois (che qui concede i suoi studi di New Orleans
per la registrazione del disco), e che sul gruppo costruisce un suono
pressoché perfetto che costituirà di base lo schema per tutte le loro
produzioni future.
Ma a girare perfettamente è anche la band, con il duo Joey Burns/ John
Convertino ormai pienamente protagonista (ascoltate il finale di Happenstance)
e ormai totalmente convinto dei propri mezzi non comuni (i Calexico
nasceranno l’anno dopo infatti), e un Chris Cacavas che sguazza dentro
gli arrangiamenti sempre molto costruiti voluti da Burn (sentitelo in
Frontage Road o Helvakowboy Song). In più una serie di
ospiti che vanno dal dobro di Rainer Ptacek che dà benzina a Yer
Ropes, al violino di Lisa Germano che interviene a delimitare
le armonie, alla voce di Victoria Williams che impreziosisce la pianistica
Spun o al solito Peter Holsapple nel suo ruolo ideale di membro
aggiunto. Gelb mostra qui il suo grande ecclettismo, passando da cavalcate
elettriche alla Dinosaur Jr come Painted Bird al rauco outlaw-country
di Left, anche questo pronto ad esplodere a metà del percorso.
E ai margini la partenza con una title-track che riprendeva a pieno
titolo l’eredità dei Thin White Rope nel definire percorsi elettrici
tra la sabbia, e un finale puramente nostalgico con il vecchio cowboy
Pappy Allen (fondatore di un noto ristorante e locale per suonare in
stile western chiamato Pappy & Harriet's a Pioneertown) che canta il
classico di Hank Williams I'm So Lonesome I Could Cry.
Insomma, coordinate precise per far capire da dove veniva e dove voleva
andare questa musica, che in questa nuova ristampa appare ancora più
bella e attuale, quasi che Glum abbia rappresentato per Gelb
e soci un vero e proprio punto di arrivo, anche se poi titoli come Chore
of Enchantment del 2000 o Is All Over the Map del 2004 svilupperanno
ulteriormente il concetto. La nuova edizione della Fire Records attua
una operazione strana, eliminando le bonus tracks che la stessa etichetta
aveva incluso in una edizione del 2011 (che era allora la prima ristampa
uscita fin dal 1994), e sostituendole con 9 tracce derivanti dalle session
a Santa Monica del 10 giungo 1994 definite “Morning Becomes Eclectic,
KCRW”, interessanti, anche se slegate dal disco come sonorità.
Inoltre, va detto che nella versione CD di queste nove ne troverete
solo due (World Stands Still e I Wish You Love), per cui
è evidente l’intenzione di portarvi ad acquistare il doppio vinile.
Operazione che sinceramente crea un po’ di confusione (visto che l’etichetta
è la stessa, perché non fare una Deluxe Edition con sia queste 9 nuove
registrazioni e le 6 outtakes del 2011?), ma che comunque ci riporta
a riascoltare uno dei dischi cardine degli anni Novanta, definito come
il disco migliore della band persino dallo stesso Gelb sul loro sito,
un must have per capire come mai ancora oggi la roots music si suona
così.