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"Bigger than life", così direbbero in America: mai definizione fu più calzante per catturare in un solo colpo l'immagine di Lee Hazlewood, carattere a dir poco eccentrico, che ha attraversato la storia della popular music con il piglio di un pioniere e di uno stravagante sperimentatore, alternando vette di genialità pura e sconclusionate imprudenze, sempre nel segno di una libertà artistica assoluta. Autore, musicista, produttore, dj, talent scout, è stato tutto e il contrario di tutto, lasciando un'impronta indelebile (è scomparso a 78 anni nel 2007) sulle sponde opposte del più luccicante mainstream musicale e dell'underground più anticonformista. Tale improbabile connubio si è reso possibile perché Hazlewood sembra non avere mai seguito nient'altro che non fosse il suo istinto un po' folle, sottostando alle regole dell'industria discografica alla maniera sua e, quando ne ha avuto le facoltà, uscendo dalla porta di servizio, inventandosi una carriera sui generis. The LHI Years: Singles, Nudes, & Backsides (1968-71) testimonia esattamente gli anni dell'indipendenza, quando superati i successi da produttore per la Mercury e la Reprise (fra le tante) e i duetti scintillanti con la reginetta Nancy Sinatra, fondò la sua etichetta, mettendo sotto contratto artisti sconosciuti e producendo una pletora di oscuri e elettrizzanti 45 giri a suon di rock'n'roll, country e stranezze assortite (tra gli altri ci finì anche Gram Parsons e la sua prima creatura, l'International Submarine Band). Un periodo che portò al progressivo allontanamento dello stesso Hazlewood dagli Stati Uniti, trasferendosi in Svezia (tra le più acclamate opere del tempo ricordiamo Cowboy in Sweden, album da cui provengono diverse tracce di questa antologia) e guidando dall'Europa una sorta di rinascimento della canzone americana, secondo la sua particolare visuale. Si, perché Lee Hazlewood è stato soprattutto un visionario: antesignano degli studi di registrazione (influenzò persino Phil Spector), produsse il primo Duane Eddy e si reinventò dj a Phoenix propugnando il primo verbo del rock'n'roll, salvo poi diventare un "regista" richiesto dalle major discografiche, inventando dal nulla il successo di Nancy Sinatra e dell'immortale hit These Boots are Made for Walkin', seguita dal fortunatissimo connubio di Some Velvet Morning (forse la canzone con cui Hazlewood è ancora oggi più conosciuto presso il grande pubblico). The LHI Years raccontà però, come anticipato, un'altra storia: ancora una volta la Light in the Attic fa opera meritoria di ripescaggio discografico (e curando sempre i dettagli con certosina dedizione), accendendo i riflettori su ballate bizzarre, singoli improbabili e outtakes che uniscono le radici rurali del musicista (era nato in Oklahoma durante la Grande Depressione), la sua figura di originale storyteller e l'inventiva di un arrangiatore dall'innato gusto pop. Cowboy atipico dunque, che unisce il linguaggio country più solitario e gli orizzonti western (complice la spiccata voce baritonale) con le orchestrazioni sontuose di una colonna sonora, i lustrini della canzone pop più sofisticata e infine bagna tutto nelle atmosfere trasognate di fine sixties, dove psichedelia e sperimentazione sono all'ordine del giorno. I poli opposti sono gli accesi colori di Califia (Stone Rider) e la desolazione acustica di una strepitosa If It's Monday Morning, passando fra le maglie di intere sezioni d'archi, fiati grondanti e all'improvviso scartando di lato fra intrecci di chitarre rootsy e pianoforti da saloon in The Bed. Sfruttando l'iconografia di un rude e introverso fuorilegge, Hazlewood tocca le corde della disperazione e dell'abbandono, giocando anche di astuzia sulla figura del loser, salvo poi assumere un ruolo da romantico e al tempo stesso burbero playboy (uno sguardo ala copertina per capire...). Per questo motivo sono essenziali nella sua carriera i duetti imbastiti con diverse voci femminili, nel segno di una tradizione che all'epoca vedeva veleggiare George Jones e Tammy Wynette, Porter Wagoner e Dolly Parton. Nella qui presente raccolta passano in rassegna le voci di Suzi Jane Hokom (nelle spirali pop psichedeliche di Nobody Like You, ad esempio), Ann-Margret (deliziosa e fragile nel rutilante country di Victims of the Night, disperata nel suo grido in Chico, patomima country&western in piena regola, con trionfale arrangiamento da cinemascope) e Nina Lizell (nella patinata, lussuriosa accoppiata di Leather and Lace e Hey Cowboy), tutte funzionali al protagonista principale recitato da Hazlewood. Sorta di Serge Gainsbourg in versione Americana o meglio di Leonard Cohen in improbabili vesti da outlaw (sentite i punti di contatto nel lascivo blues notturno di The Night Before o nella maestosa Trouble Maker, prima di intonare le eteree note di afflizione in Come on Home to Me), perso però in qualche casinò di Las Vegas prima di fare ritorno a casa (la pura I Just Learned to Run), Lee Hazlewood è un personaggio da riscoprire con la giusta disposizione d'animo verso le singolarità di quei musicisti che hanno saputo sgusciare come cani sciolti fra le mutazioni della canzone tradizionale americana. |