The
Jayhawks
The Jayhawks
[Lost Highway/ Universal
2010]
Albori di una piccola rivoluzione
a venire: Minneapolis 1986, fuori rimbomba il frastuono dell'hardcore punk, la
"gioventù bastarda" cantata da Replacements e Husker Du, le strade sono incendiate
dall'elettricità e dalla rabbia di una nuova generazione, ma in un angolo nascosto
alla vista, fuori dai giochi, quattro tizi cantano ballate da bivacco, vecchie
folk song, country rock a dir poco anacronistico. Così deve essere sembrato anche
alla maggior parte del pubblico dei college che animava la scena cittadina al
tempo dell'esordio dei Jayhawks: tempo scaduto per questi ragazzi dall'aria
arruffata e per le loro canzoni dal tremendo sapore agreste. Saranno profeti invece,
precorritori persino dell'esplosione alternative country attribuita agli Uncle
Tupelo e certamente di buona parte di quel rock provinciale e tradizionalista
che prenderà il largo nel decennio successivo.
I Jayhawks di Bunkhouse
(la "baracca" in copertina che ribattezza l'omonimo album e il nome della stessa
etichetta fondata dall'amico Charlie Pine) sono piuttosto figli della roots music
di cui si andava parlando in quella prima metà del decennio, possiedono la stessa
ingenuità dei cugini che arrivavano dalla West Coast (dai Beat Farmers ai Blasters,
tanto per intenderci), ma con quel tipico accento del Midwest e quella vicinanza
all'anima tormentata di Gram Parsons che li fa sembrare una versione aggiornata
del country rock fra Nashville Skyline e Sweetheart of the Rodeo (per citare altri
maestri di vita, Bob Dylan e Byrds). Duemila copie in rigoroso vinile all'epoca,
da tempo oggetto di culto e curiosità, The Jayhwaks torna alla luce
grazie all'interessamento dellaLost highway, che segue le tracce di una leggenda
defilata e sente forse odore di nostalgia. Di certo i ritratti di Mark Olson (al
tempo unico vocalist e autore principale) e Gary Louris sono qui sfuocati eppure
schietti: il primo arriva da una scalcagnata band rockabilly che si escbisce nei
localacci del Minnesota, l'altro dai misconosciuti Safety Last (un disco sulla
gloriosa label cittadina twin Tone), senza particolari sogni di gloria. Con Marc
Perlman al basso (l'unico che li seguirà fedelmente negli anni) e Norm Rogers
alla batteria i Jayhawks della prima era sono scarmigliati e generosi, ma contengono
in nuce quella evoluzione che li porterà alla perfezione formale di Hollywood
Town Hall e Tomorrow the Green Grass.
Qui la devi scorgere però sotto
la veste di un honky tonk baldanzoso, con la pedal steel di Carl Hand che sbuffa
al seguito delle chitarre in Falling Star
e Let the Last Night be the Longest (Lonesome Morning),
là fuori da qualche parte fra Johnny Cash e il rocakbilly della Sun (la
nervose Cherry Pie e Good
Long Time, con un Louris che mostra una verve inedita alla chitarra
solista), e ancora tra le voci che abbozzano i primi intrecci, certo lontani anni
luce dalla compiutezza pop degli anni della maturità eppure rivelatori di una
scintilla (sentite il riff di Let the Critics Wonder
e dite se non anticipa il loro futuro). The Jayhawks è dunque soltanto (ma non
è poco, specie se vi doveste immergere nell'America del 1986) un delizioso ripasso
country che gioca con i luoghi comuni del genere e ne esce comunque vittorioso
per vivacità e intelligenza (The
Liquor Store Came First, Misery Tavern),
intrecciando il canto da autentico hobo dylaniano di Olson (King
of Kings ne è intrisa fino al midollo) con l'immaginario di una provincia
rock non illuminata da alcun riflettore, priva di attenzioni e custode di un linguaggio
eterno. (Fabio Cerbone)