"Lavori personali e mono-copia,
registrati nelle cabine discografiche "fai da te" dei tempi che furono":
così si esprimeva Simon Reynolds, ragionando sul titolo del secondo
album di DJ Shadow, in "Retromania. Musica, cultura pop e la nostra
ossessione per il passato" (Isbn, 2011), dove il fenomeno delle cosiddette
"private press" - dischi realizzati in proprio e non commercializzati
né acquistabili tramite i canali consueti - venivano allora descritti
come l'ultima frontiera del collezionismo e della nostalgia. Nel frattempo,
però, continuando il tempo a scivolare grandioso e le mode a sparpagliarsi
in mille rivoli senza alcuna soluzione di continuità, le private-press
sono diventate il pane quotidiano di varie etichette oggi intente a
ristampare opere introvabili da anni (a causa delle loro tirature irrisorie)
e in certe occasioni caricate su YouTube, per intero, da qualche benemerito
carbonaro degli incunaboli a 33 giri (nel 2013 è addirittura uscito
per la newyorchese Sinecure un volume di grande formato, "Enjoy The
Experience: Homemade Records 1958-1992", sulle copertine talvolta deliranti
delle private-press americane: recuperatelo a tutti i costi).
È il caso della Anthology, sussidiaria della Mexican Summer che, dopo
averci fatto conoscere i dischi altrimenti oscuri di Robert Lester Folsom
e Michael Angelo (!), ci riprova con questo Spirit Of The Golden
Juice, opera prima, nonché unica, del californiano F. J.
McMahon da Santa Barbara, 27 minuti di puro e incontaminato folk-rock
distribuiti a singhiozzo, nel 1969, lungo le rivendite della costa californiana
e mitizzati, dai cacciatori di vinile, per la favoleggiata presenza
del chitarrista bluegrass Norman Blake in qualcuna delle nove tracce
(da cui una pionieristica ristampa del 2009, targata Rev-Ola e quasi
subito sparita dai negozi).
Al tocco di Blake si possono forse attribuire i virtuosismi elettroacustici
della seconda The Road Back Home
e, almeno in parte, gli altrettanto raffinati passaggi d'apertura della
byrdsiana Black Night Woman, ma per il resto Spirit Of The Golden
Juice sembra invece starsene abbarbicato sulla voce ipnotica e sulla
sei corde carezzevole del suo artefice (accompagnato con discrezione
dal basso di John Uzonyi e dai tamburi sottilissimi di Junior Nickels),
quasi un Tony Joe White andato a lezione di umida malinconia da Fred
Neil o Tim Hardin e capace di scrivere pagine di memorabile fantasmagoria
folkie quali Sister, Brother, la
countreggiante e disperata Five Year Kansas Blues, l'eterea e
desolata title-track.
Come per l'esordio dello spagnolo Victor Erice nel campo del lungometraggio,
appunto "Lo spirito dell'alveare" (1973), fiaba dolente e terribile
su una bambina imprigionata nei suoi sogni al pari di certe api intrappolate
nell'alveare, anche McMahon (il cui "spirito" era un bourbon molto consumato
ai tempi del Vietnam) usa le cadenze gentili dell'acquerello folk per
raccontare la personale, terribile esperienza di guerra, in qualità
di aviatore dell'esercito americano, nel sud-est asiatico. Se le note
minimali di Spirit Of The Golden Juice danno a volte l'impressione di
procedere sfarinandosi in una dimensione onirica, a un passo dall'incubo
vero e proprio, lo si deve a questo: a questa tensione fatta di piccole
danze sul nulla, a una commozione invisibile ma sempre presente, a un
senso dell'umano tanto concreto quanto impalpabile che McMahon riesce
a far vivere, in ogni brano, con bravura e sensibilità indiscutibili.