Alla
fine degli anni Novanta la carriera musicale di Gary Moore è
in una fase di stanca. La spinta creativa e il successo superiore alle
attese del periodo iniziato nel 1990 con l’eccellente Still Got The
Blues, ritorno al blues delle origini dopo l’hard rock del decennip
precedente rappresentato da dischi come Run For Cover e Wild
Frontier, sembra esaurita con Blues For Greeny, il pregevole
tributo al suo mentore e amico Peter Green del ’95, accolto senza grande
entusiasmo dal pubblico. Con il successivo Dark Days In Paradise
il chitarrista di Belfast svolta nuovamente alla ricerca di un suono
più contemporaneo tra rock ed elettronica con nuovi collaboratori, ottenendo
giudizi contrastanti e chiudendo in questo modo il contratto con la
Virgin.
Gary si accorda con la Castle/Sanctuary e pubblica A Different Beat,
dodicesimo album solista in studio, che inizia il periodo oggetto di
questo nuovo box che racchiude in quattro cd i dischi realizzati per
la label in sei anni, con l’aggiunta di qualche bonus track non particolarmente
rilevante, di un Blu-Ray con interviste e un mix diverso, memorabilia
e accurate note biografiche di Dave Everley. Prodotto con Ian Taylor
e parzialmente mixato dal gruppo drums and bass E-Z Rollers,A
Different Beatcerca di mischiare hard rock e blues con il pop
e la dance, chitarra e ritmi elettronici, loop e campionamenti, con
risultati discutibili. Un esperimento coraggioso non apprezzato dal
pubblico, nel quale si distinguono la ritmata Lost In Your Love
in cui voce e chitarra emergono su una ritmica elettronica, il soft-rock
Surrender allungato all’eccesso, ma con un assolo pregevole,
mentre tracce come l’opener Lost In Your Love, la banale Worry
No More, il blues elettronico Bring My Baby Back e House
Full of Blues si potevano evitare. Per non parlare di Can’t Help
Myself, presente addirittura in due versioni e di Fatboy,
omaggio a Fatboy Slim. L’unica cover è una ripresa breve e incisiva
di Fire di Jimi Hendrix.
Visto il fallimento dei due dischi sperimentali, Gary torna all’ovile
con Back To The Blues del 2001, registrato con Vic Martin
(Eurythmics, Bee Gees) alle tastiere, Pete Rees al basso e Darrin Mooney
(Primal Scream) alla batteria. Il cambiamento è evidente dall’apertura
paludosa di Enough Of The Blues; quattro covers tra le quali
You Upset Me Baby di B.B. King rivitalizzata da una sezione fiati
e un’incisiva Stormy Monday si alternano a sei tracce autografe
discrete, ma derivative sia rispetto ai blues storici che alla precedente
produzione di Moore. Esempi classici la melodica Picture Of The Moon,
una sorta di riscrittura di Still Got The Blues mischiata con
Parisienne Walkways, e The Prophet, un malinconico strumentale
che sembra uscito dalla penna di Roy Buchanan. Tuttavia non mancano
vigore e solidità e il disco scorre veloce, anche se non riesce a catturare
l’attenzione del decennio precedente. Tra le bonus tracks spiccano due
versioni dal vivo di Cold Black Night e Stormy Monday.
Nel
2002 Moore forma un trio chiamato Scars con il quale incide l’omonimo
album in compagnia del confermato Darrin Mooney e del bassista Cass
Lewis (Skunk Anansie). L’intenzione è di spostarsi verso un rock energico
ispirato da Hendrix e dai Cream (un po’ come il trio di breve durata
BBM com Bruce e Baker) venato di blues e con qualche inserimento elettronico.
Questo approccio è lampante nel suono distorto della chitarra nella
ruvida apertura di When The Sun Goes Down, in World Of Confusion,
hendrixiana fino al midollo, nell’aspro e ispido blues Ball And Chain
con un break strumentale indiavolato e in My Baby. Scars
è un disco vitale, pieno di grinta, di entusiasmo e di assoli a tratti
esplosivi che regge discretamente nonostante eccessive dosi di testosterone
e il livello modesto di tracce come Rectify, Stand Up
e Wasn’t Born In Chicago, salvata dalla chitarra. Non mancano
un paio di sobrie ballate, la dolente Just Can’t Let You Go e
la notturna Who Knows.
Parzialmente deluso dai risultati e dai riscontri del progetto Scars,
Moore decide di tornare nuovamente al blues confermando Mooney, affiancato
al basso dall’esperto Bob Daisley (Ozzy Osbourne, Black Sabbath, Rainbow,
Uriah Heep), vecchio amico e collaboratore negli anni Ottanta e Novanta
e da Jim Watson alle tastiere. Power Of The Blues, che
chiude il box, è un album serrato, potente e intenso, anche se non si
può considerare un’aggiunta essenziale alla sua discografia. Ma Gary
suona convinto ed entusiasta in tracce come Power Of The Blues,
There’s A Hole e le ballate That’s Why I Play The Blues e
Torn Inside. Anche le cover di Memory Pain (Percy Mayfield),
I Can’t Quit You Baby ed Evil (Willie Dixon) sono affrontate
con calore e mordente, pur ricalcando interpretazioni altrui, specialmente
la seconda che non si differenzia da quella dei Led Zeppelin. Passato
alla Eagle Records, l’artista incide ancora tre album in studio di blues-rock,
l’ultimo è Bad For You Baby del 2008, oltre a un Live At Montreux
2010 che lo riporta all’hard rock degli anni Ottanta, prima di morire
per un infarto il 6 febbraio del 2011 a Estepona in Spagna.