Sugar
Copper Blue/ Beaster/ File Under:Easy Listening
[Granary Music/Edsel 2012, CD+DVD]


Bob Mould

Bob Mould / The Last Dog And Pony Show / LiveDog98
[Granary Music/Edsel 2012, 3 CD]


www.bobmould.com

File Under: popular demons

di Gianfranco Callieri (26/11/2012)


Ah, ciò che tu vuoi sapere,
giovinetto,
finirà non chiesto,
si perderà non detto.


Sono parole di Pier Paolo Pasolini, dall'ode A Un Ragazzo dedicata al giovane Bernardo Bertolucci e contenuta nella Religione Del Mio Tempo (1961), ma potrebbero benissimo valere ancora per Robert Arthur "Bob" Mould, chitarrista newyorchese trapiantato giovanissimo nel Midwest, nei freddi inverni del Minnesota di stirpe germanica e norvegese, e da allora alla perenne, tormentata ricerca di un modo di esprimere attraverso la musica fragilità e passioni, tumulti e rifiuti, introversione e grandi amori. Se c'è un fil rouge facilmente rintracciabile in tutti i suoni prodotti da Mould dai primi anni '80 a oggi, dal violento bagno di sangue degli Hüsker Dü (senz'altro, nella sua fissazione di trasporre le melodie psichedeliche di Byrds e Donovan in un visionario massacro hardcore, uno dei gruppi più grandi e importanti del decennio cui appartengono) al rifferama punk dell'ultimo, esaltante, mai riconciliato Silver Age, questo riguarda proprio la rabbia sotterranea eppure fortissima, a ogni manifestazione lacerante, di un artista straziato da dubbi brucianti e da un incontenibile bisogno di esprimersi, da una miriade di conflitti interiori e dalla speculare volontà di vomitarli addosso agli ascoltatori in un continuo zampillare tanto di frustrazioni quanto d'orgoglio.

Persino chi, come chi vi scrive, continui a ritenere più interessante e sfaccettata la scrittura dell'ex bandmate Grant Hart (ovvero l'altro 50% del songwriting degli Hüskers, sovente tiranneggiato e ridimensionato dallo stesso Mould nonché, purtroppo, persosi in una carriera altalenante e pesantemente segnata, anche sul piano della stabilità psicologica, da anni di tossicomania), non può non restare ammirato di fronte alla costanza, all'applicazione e alla coerenza mostrate da Mould nel proporre, pure nei rari scivoloni (mi riferisco alla pessima disco infarcita di hip-hop dell'album Modulate [2002] e, nello stesso anno, al maldestro, kraftwerkiano Long Playing Grooves pubblicato ricorrendo al moniker LoudBomb), stralci di un'interminabile autobiografia emotiva costantemente caratterizzata da ansie, paure e brutalità di approccio.

Imprevedibilmente, una volta formato il power-trio Sugar, peraltro primo capitolo di una lunga collaborazione col granitico bassista georgiano David Barbe, Mould avrebbe ottenuto, grazie a tre dischi licenziati dalla molto rispettata Creation - l'etichetta indipendente di Alan McGee - un riscontro economico mai visto prima e mai più sfiorato dopo. Difficile ricordarsene ora, intrappolati come siamo in un tritacarne temporale dove tutto viene macellato a velocità supersonica, ma in territorio inglese (dove furono gratificati da un cospicuo numero di copertine da parte del settimanale NME) i dischi degli Sugar raggiunsero regolarmente i primi posti delle classifiche, per un certo periodo addirittura offuscando la già enorme popolarità dei soci di label Oasis. Intollerante e caratterialmente astenico come sempre, Mould non tardò affatto a stufarsi del nuovo ruolo di star; da qui la decisione di pensionare il gruppo con la stessa rapidità sfruttata per assemblarlo.

Rimase intatta, tuttavia, l'amicizia con il patron e ammiratore McGee, che gli pagò comunque le registrazioni di altri due album solisti - il terzo e il quarto, quindi, di una carriera proprietaria oggi arrivata alla decima uscita - e ancora adesso continua a descrivere l'esperienza con irriducibile rispetto. Le dichiarazioni di stima di McGee, oltre ai diretti commenti degli interessati e dei tecnici di volta in volta coinvolti nei processi d'incisione, potete trovarle nelle sontuose ristampe dei cinque dischi di Mould editi da Creation, quattro operazioni messe in cantiere con l'amore, la devozione e la prodigalità di materiale inedito o poco noto (sebbene sia un piacere riascoltarli di nuovo, parecchi brani dei brani di contorno usati per l'occasione erano apparsi in Besides ['95], raccolta di rarità comprensiva, nelle prime 25'000 copie, di The Joke Is Always On Us, Sometimes, un live americano dell'anno prima anch'esso qui recuperato) che sempre si vorrebbe poter constatare in occasioni simili.


Chi decidesse di acquistarle tutte, queste ristampe, si prepari a una vera e propria maratona, perché i dischi da ripassare, dai cinque citati, oggi diventano otto, con l'aggiunta di ben tre dvd (inessenziali: a parte una toccante Believe What You're Saying immortalata dal vivo, per Mtv, con un cameo di Lou Barlow dei Dinosaur Jr, si tratta per lo più dei video dell'epoca, in genere terrificanti per rozzezza e ingenuità estetica, di interviste televisive a dir poco impacciate e di qualche scampolo live di interesse relativo), magari adatti a una visione unica e nondimeno piuttosto impegnativi, sotto il profilo della durata, per essere affrontati in blocco. Un parere introduttivo sulla breve epopea degli Sugar, dove le ristampe cominciano? A me non hanno mai fatto impazzire, al contrario di molti fans degli Hüsker Dü capaci di ritrovarvi una versione meno tormentosa del loro spleen furibondo. Detto con enorme rispetto per il gruppo di Athens, gli album degli Sugar mi sono sempre sembrati, da parte di Mould, tentativi, riusciti il giusto, di fare dischi à la REM senza averne bisogno, fingendo di mantenere un estemporaneo carico di abrasione sonora nel momento in cui la ricerca di una decisa accentuazione delle melodie, spesso forzate, rendeva squilibrato il caratteristico impasto di furore e carezze così tipico della scrittura dell'artista.

Nonostante ciò, riascoltandoli uno di fila all'altro, anche questi album, tanto per ribadire ancora una volta la grandezza del Mould autore, sfoderano un numero impressionante di zampate, significative sia nel porsi all'interno della concordanza progettuale del nostro, sia nel marcare una vistosa distanza dai suoi canoni espressivi abituali. Copper Blue ('92) è il primo passo, e pure il migliore. In qualche momento (Changes, If I Can't Change Your Mind, Man On The Moon) si ha persino l'impressione che Mould sia riuscito, come scrisse all'epoca Robert Christgau, a introiettare nella propria scrittura il gusto per quelle "popwise songs" fino ad allora appartenuto soltanto a Grant Hart. Impressione rivelatrice e, al tempo stesso, poco attendibile, giacché sono sufficienti la dolorosa The Slim, dedicata a un amico morto di AIDS, la solenne cavalcata Fortune Teller e, soprattutto, la distorta, younghiana The Act We Act a rassicurare tutti (si fa per dire) sul persistere delle nevrosi e delle pene di Bob Mould. Diciamo, insomma, che in Copper Blue, sotto una spessa patina power-pop, si nascondono, come sarà anche negli altri due album, entrambe le anime di Mould, il post-punker affascinato da cupe fughe chitarristiche intinte nel curaro (A Good Idea) e il ragazzo innamorato delle efflorescenze pop d McGuinn e soci (evidentissimi in If I Can't Change Your Mind e nello stralunato arpicordo della censurabile Hoover Dam). Gli otto inediti, o presunti tali, non sono granché (meglio i pezzi dal vivo alla Bbc, comunque, delle b-sides), mentre, ancorché sia meglio tacere sui repellenti video di repertorio sul dvd, è divertentissimo il concerto proposto sul secondo cd, un live incendiario (registrato al Cabaret Metro di Chicago, Illinois, il 22 luglio del 1992), sparato a mille in un costante intercalare di squarci pop e pura confusione rumorista, suggellato da un'acrobatica Dum Dum Boys (Iggy Pop, via David Bowie) e da una riduzione altrettanto recalcitrante, fulminea e terroristica di Armenia City In The Sky (The Who).

Beaster ('93), in pratica un EP composto da sei canzoni registrate durante le sessions di Copper Blue ma da quello tenute fuori perché troppo cupe e viscerali, venne salutato come un ritorno alle atmosfere tragicamente corrosive del primo Mould solista. In realtà, a dispetto della sanguinosa copertina e della sua vaga natura di concept (sarebbe una parabola sulla rovina e sulla salvezza del suo artefice, assillato da un mondo brutto e malvagio), Beaster assomiglia più a uno studio sui suoni - feroci e gassosi, violenti ed eterei - che a una raccolta di brani. Questi non sono particolarmente interessanti (la deriva quasi metal di Judas Cradle o la centrifuga da Richard Thompson invelenito di JC Auto, pur colpendo nel segno eccome, non valgono l'indimenticabile supplizio delle vecchie Poison Years, Whichever Way The Wind Blows, Stop Your Crying o Sacrifice / Let There Be Peace), al contrario, però, di un martellante lavoro di ingegneria sonora che, rimarcandone il connotato iterativo, trasforma il sound in una burrasca a cielo spalancato, in uno scroscio tempestoso di collera e rancore interrotto soltanto, alla fine, dall'organo celestiale di Walking Away. Sul dvd allegato, un video (esilarante, per i motivi sbagliati) e quattro brani da un concerto del 13 giugno 1993 nel londinese Finsbury Park, con un brano inutile (l'insipida The Beer Commercial, scritta da Barbe) e un'apertura di rara potenza rockista (The Act We Act, a dir poco epica).

File Under: Easy Listening
('95), di solito, per motivi imperscrutabili, il più sottovalutato della terzina (merita, nei pregi e nei difetti, esattamente quanto gli altri), ritorna a macinare, con un po' di pulizia in più, il power-pop imbevuto di punk nel frattempo diventato gigantesco nelle mani dei Nirvana, rispetto ai quali toglie di mezzo i ralenti alla Black Sabbath per privilegiare l'interazione tra "vuoti" e "pieni", tra pause di sospensione e allucinazioni rumoriste, trasformata in stato dell'arte dai Pixies. Nelle varie Gift, Your Favorite Thing, Gee Angel e la sconquassante Can't Help You Anymore sembrano, di nuovo, inediti dei Byrds ripassati dagli Wire di Pink Flag: tutto molto gradevole, a tratti entusiasmante, nonostante la sensazione di aver a che fare con un Mould dalla personalità falsamente pacificata. Difatti, ecco che il leone torna a ruggire di rabbia e dolore nella frastornante Explode And Make Up, altro apocrifo da Neil Young precipitato in un abisso di distorsioni e lirismo, l'unico brano di FU:EL a dirigersi verso la dimensione totalizzante della sovrapposizione tra arte e vita senza accettare il confino nell'ambito "di genere". Quasi un presagio del coming-out sulla propria omosessualità, affidato a una tribolata intervista di quegli anni sul mensile Spin (dopo un lungo stadio di rifiuto di sé, il nostro è arrivato persino a definirsi consapevole membro della comunità "bear", cioè gay in genere barbuti, pelosi e sovrappeso), il pezzo, in voluto contrasto con la vivace confezione dell'album, buffamente racchiusa nei "Designs" per l'industria tessile realizzati dal georgiano Lou Kregel e ispirati alla carta da parati degli anni '40 e '50, si mangia tutte le rarità (otto, tra esse la scorata, emozionante Going Home), il concerto aggiunto (ovvero il citato The Joke…, a onor del vero cacofonico e nebuloso al limite della sopportazione) e gli spezzoni tv riesumati per l'occorrenza.

Archiviata l'avventura degli Sugar nello stesso anno in cui la Virgin se ne esce, a sorpresa, con un'antologia dei suoi due primi lavori (Poison Years ['94], prescindibile se non fosse per due ottimi inediti assoluti, varie trasposizioni dal vivo e una spettacolare versione live della Shoot Out The Lights di Richard e Linda Thompson), Mould si prende due stagioni di riposo per comporre e registrare l'album eponimo del '96, altrimenti conosciuto come "Hubcap" ("coprimozzo", dalla foto di copertina, di una bruttezza rara come il 90% delle copertine del nostro). Bisognerebbe leggere prima i credits, dove campeggiano inequivocabili le scritte "Bob Mould is Bob Mould" e "This one is for me", e poi ascoltare il disco, interamente suonato e prodotto dall'artista durante un periodo di crisi terminale con il manager e compagno Kevin O'Neill. Altrimenti si rischia di restare spiazzati dalla tristezza definitiva della pur magnifica Anymore Time Between, folk-rock accorato e inquieto che introduce l'album senza compromessi di sorta, assecondando l'umore grigio di un introversione folkie autunnale, dimessa e confessionale poi replicata nelle varie Thumbtack e Next Time That You Leave (e anche nella più vivace, nonostante il titolo, Roll Over And Die). I Hate Alternative Rock, fraseggio esplosivo di pop'n'roll scorticato, diventa il più improbabile dei successi indie, ma la mesta introspezione cui è consacrato tutto l'album (lampante persino nella travolgente Deep Karma Canyon e nello sconquasso di feedback di Egøverride) tiene alla larga il grande pubblico.

Peccato, perché Bob Mould non merita affatto la cattiva fama piovutagli addosso (tolta la confusionaria Hair Stew, guazzabuglio di troppe cose mal rifinite, non c'è un pezzo non riuscito), e lo confermano gli inediti - rauchi e grintosi come ci si aspetta - e i pezzi live qui abbinati (impossibile non citare la resa formidabile della stellare Fort Knox, King Solomon). Anche The Last Dog And Pony Show ('98), spernacchiatissimo al momento dell'uscita, non merita gli strali attiratisi 14 anni fa. Anzi, secondo il sottoscritto si tratta di uno dei tre o quattro lavori indispensabili del Mould solista, nonché di uno di quelli con le canzoni migliori. Un album nudo e sincero, fatto soltanto di grandi canzoni (appunto), forse poco considerato poiché il suo equilibrio quasi cristallino tra sfuriate rock e poemi elettroacustici è arrivato nei negozi (ne esistevano ancora) quando l'hype, esaurita la sbornia grunge, si trovava a tutt'altre latitudini rispetto a quelle indicate da chitarre, violini e drumming spigolosi. Di fatto, New #1 (un capolavoro di equilibrio tra quiete e tempesta), Along The Way, la folkeggiante Taking Everything e la melanconica ma maestosa Who Was Around? meritano di figurare nell'elenco delle migliori ballate mai scritte da Mould, e lo stesso si può dire, sul versante delle aggressioni sonore, per le rasoiate di sei corde della strepitosa First Drag Of The Day, per il fragore rockinrollista di Sweet Serene, per l'alternarsi di epica rock, fenditure ambient e fluttuazioni semiacustiche dell'incredibile Skintrade. È vero, è anche l'album dell'orripilante Megamanic, un martello elettronico (secondo Mould stimolato dal suo interesse verso la club-culture newyorchese) indegno persino della colonna sonora di un videogioco, ma circondato com'è da brani di primissima scelta, lo si può senz'altro rubricare al rango di peccato veniale.

Nella riproposta che accorpa Bob Mould a The Last Dog And Pony Show, con un'intervista radiofonica a implementare il secondo, c'è anche, in un terzo cd, accreditato alla "Bob Mould Band", un live inglese del 1988, compatto come un proiettile, teso, aguzzo e vibrante come nelle pagine migliori del nostro, epitaffio rovinoso e fracassante alla conclusione di una fase della carriera che, dopo i due deprimenti saggi electro (Modulate del 2002 e, nello stesso anno, Long Playing Grooves) ancora imperversanti nei pessimi Body Of Song ['05] e District Line ['08], tuttavia quasi coevi al commosso e commovente dvd Circle Of Friends ['07], un "riportando tutto a casa" degno di un'intera carriera, sarebbe poi tornata alle vette liriche, arrabbiate, febbrili e nervose di sempre prima col buonissimo Life And Times ('09), infine col nuovo, roccioso Silver Age.

Non è detto, in effetti, che le ristampe degli album sin qui ripercorsi circoscrivano le puntate indispensabili della carriera d questo artista. Ma se siete tra coloro i quali reputano il rock una faccenda più importante della singola somma di canzoncine (rispettabili!) e iconografie riuscite (rispettabilissime!), allora sapete già quanto sia essenziale, e meritevole di uno studio attento e partecipe, il percorso di un arista viscerale, assoluto e ogni volta sanguinante come Bob Mould.


    

 


<Credits>